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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • L'industria del Sud? Decimata dalla crisi dovrà fare "rete"

    I numeri di questa crisi troppo lunga per il respiro corto dell’economia del Mezzogiorno evidenziano in maniera spietata che la “deindustrializzazione” è un fenomeno ormai strutturale. L’ultima, in ordine di tempo, autorevole conferma arriva dal Censis (nota diffusa martedì 19 marzo). “Tra il 2007 e il 2011 gli occupati nell’industria meridionale si sono ridotti del 15,5% (con una perdita di oltre 147.000 unità) a fronte di una flessione del 5,5% nel Centro-Nord. Oltre 7.600 imprese manifatturiere del Mezzogiorno (su un totale di 137.000 aziende) sono uscite dal mercato tra il 2009 e il 2012, con una flessione del 5,1% e punte superiori al 6% in Puglia e Campania”. Nel dettaglio: “Dei 505.000 posti di lavoro persi in Italia dall’inizio della crisi, tra il 2008 e il 2012, il 60% ha riguardato il Mezzogiorno (più di 300.000)”. E ancora: “Un terzo dei giovani tra i 15 e i 29 anni non riesce a trovare un lavoro. Se poi oltre a essere giovani si è donne, la disoccupazione sale al 40%. Il tasso di disoccupazione femminile totale è del 19% al Sud, a fronte di un valore medio nazionale dell’11%”. In questo contesto la “geografia” dei redditi chiarisce bene che cosa significhi esattamente il “dualismo italiano”. “Il Centro-Nord (31.124 euro di Pil per abitante) è vicino ai valori dei Paesi più ricchi come la Germania, dove il Pil pro-capite è di 31.703 euro. Mentre i livelli di reddito del Mezzogiorno sono inferiori a quelli della Grecia (17.957 euro il Sud, 18.454 euro la Grecia)”. Un passaggio sintetico, ma altrettanto desolante sulla “questione” dei fondi europei è utile per avere un quadro più completo. “I contributi assegnati per i programmi dell’Obiettivo Convergenza destinati alle regioni meridionali ammontano a 43,6 miliardi di euro per il periodo 2007-2013. A meno di un anno dalla chiusura del periodo di programmazione risulta impegnato appena il 53% delle risorse disponibili e spesi 9,2 miliardi (il 21,2%)”. Ma il problema più grave è di natura qualitativa, oltre che quantitativa. “Anche l’efficacia dei programmi attivati con i fondi europei è discutibile. Al contrario di ciò che è accaduto in altri Paesi con un marcato dualismo territoriale, in Italia la convergenza tra Sud e Nord non si è mai realmente affermata”. Non sembrano esserci attenuanti: “Le risorse spese nelle regioni meridionali non solo hanno contribuito debolmente al riequilibrio territoriale, ma hanno rafforzato i circuiti meno trasparenti e congelato l’iniziativa imprenditoriale con incentivi senza obbligo di risultato e progetti spesso estranei alle vere esigenze delle economie locali”. A volte, però, anche di fronte a scenari obiettivamente a tinte scure, bisogna sapere “leggere” con attenzione i trend che, sebbene tra mille ritardi e contraddizioni, rappresentano le uniche luci che illuminano (a distanza) l’uscita dal tunnel. Prendiamo il caso delle reti d’impresa. Questa particolare forma di strumento giuridico si configura come opzione strategica per costruire processi di aggregazione produttiva più adeguati alle sfide della competitività tra territori. Andando ad analizzare i numeri diffusi da Unioncamere ed aggiornati alla fine di dicembre dello scorso anno, quasi si resta stupiti a rintracciare la provincia di Salerno al tredicesimo posto in Italia per numero di soggetti (74) aderenti a 15 contratti. Un risultato importante nel contesto regionale e meridionale. La stessa Campania - con 36 contratti e 124 soggetti coinvolti - fornisce segnali “inaspettatamente” incoraggianti. Certo le distanze con i primi della classe sono notevoli (in Lombardia i contratti sono 198 per 782 aziende/soggetti), ma quello che conta in questa fase è la ricezione, appena agli inizi, di una metodologia di approccio imprenditoriale innovativa. Le “reti” da sole non possono bastare, ovviamente, ma rappresentano l’emblema di una nuova cultura industriale basata su sistemi integrati ed economie di scala che fanno la differenza in termini di capacità attrattiva degli investimenti. Solo a piccoli passi e tessendo le “reti” di nuove alleanze tra tutti gli attori dello sviluppo locale è realistico credere che si possa restare agganciati all’Europa ed ai mercati “glocali”. Ma finora solo in pochi sono riusciti a non considerarsi l’ombelico del mondo. ERNESTO PAPPALARDO direttore@salernoeconomy.it


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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