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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • Spending review e olio di ricino per il Mezzogiorno

    Si fa un gran parlare – non di rado a sproposito – di quanto va cucinando e propinando il Governo dei “tecnici” al nostro Mezzogiorno. Ci si affanna a precisare tante cose: dai ritardi nell’impiego dei fondi strutturali alle varie e numerose inadempienze amministrative e strutturali. Ma se poi ritorniamo alla crudezza dei numeri ci si rende conto di una verità semplice semplice: la sola logica “ragionieristica” dei conti a posto o dei compiti a casa – in perfetta linea con le direttive Ue – non può funzionare per fare ripartire l’economia di questo Paese. Né tanto meno per provare a ridurre le distanza tra una parte e l’altra dell’Italia, con buona pace delle cosiddette politiche di coesione o come le si voglia definire. Il rapporto Svimez come sempre chiarisce bene tante cose. Prima domanda: quanto pesano le manovre economiche sul Sud? Che cosa hanno significato e che cosa stanno significando in termini di “ricaduta” sulle imprese? “Le quattro manovre effettuate nel 2010 e nel 2011 e approvate dal precedente e dall’attuale Governo hanno un impatto complessivo sul Pil più pesante nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord secondo stime effettuate su documenti ufficiali di finanza pubblica, compresa la spending review dello scorso luglio”. L’effetto depressivo sul Pil nel 2012 si attesta all’1,1%, ma in questa percentuale nazionale la “quota” parte delle regioni meridionali è del 2,1%. “A pesare sull’impatto delle manovre al Sud – spiega la Svimez - è per circa il 75% la caduta degli investimenti, responsabile di un calo del Pil di 1,7 punti percentuali sui complessivi 2,1 punti”. Per non parlare dell’eredità negativa derivante dallo “scippo” dei fondi Fas sul flusso degli investimenti. Il dualismo territoriale è tristemente confermato da un’altra valutazione strategica: l’accesso effettivo alle agevolazioni per il sistema economico e produttivo. “Mentre nell’area centro-settentrionale - rileva la Svimez - gli importi annuali sia delle agevolazioni concesse, sia di quelle erogate, sono leggermente aumentati, nel Sud emerge una netta tendenza al ribasso: nel confronto tra il biennio 2005-2006 e il biennio 2009-2010, gli incentivi concessi alle imprese meridionali sono crollati da una media annua di circa 6 miliardi di euro a poco più di un miliardo; quelli erogati da 2,5 a 1,1 miliardi”. Insomma, altro che inondazione di fondi sottratti al “virtuoso” Nord: per essere precisi “la quota di accesso del Mezzogiorno è scesa dal 58,8% nel 2005 al 28,9% nel 2010 per gli importi concessi; dal 56,6% al 37,2% per quelli erogati”. Chiaro anche lo scenario nel quale ci troviamo: “(…) Quello di una profonda e continua de-industrializzazione. Giù infatti al Sud anche gli investimenti fissi lordi, -4,9% nel 2011, e -1,3% del resto del Paese”. Come provare ad uscirne, se è ancora possibile, e prima di imbarcarsi in una deriva greca tutt’altro che scongiurata? “Occorre prendere atto - sottolinea la Svimez - che nella crisi il Sud ha pagato già un prezzo molto alto con tagli significativi alle risorse per investimenti. Gli elementi emersi pongono in evidenza l’esigenza imprescindibile di trovare spazi per il sostegno, specialmente nel Mezzogiorno, dei processi di accumulazione di capitale produttivo e impedire così una spirale recessiva che potrebbe determinare effetti sociali ancor più drammatici”. E ritorna, quindi, il punto sostanziale: rimettere al centro di un’agenda condivisa da tutti gli attori territoriali (pubblici e privati) una vera politica industriale. Accanto ad un’indispensabile politica industriale nazionale “andrebbe affiancata una politica regionale “realmente aggiuntiva” che, ancorata ad una strategia di medio-lungo periodo di portata nazionale e supportata da un flusso adeguato e costante di risorse, possa favorire lo sviluppo e l’adeguamento dell’industria del Mezzogiorno”. Le priorità sono arcinote: “(…) La ricerca e l’innovazione, l’istituzione di fondi di finanza innovativa specifici per l’area e soprattutto la crescita dimensionale delle Pmi, tramite il sostegno alla diffusione delle reti”. Lecito ed insuperabile un dubbio di fondo: ma quale classe dirigente meridionale sarà mai in grado di articolare un proprio percorso di fronte a questa immane “fatica” ricostruttiva? La sensazione è che il problema arriverà per così dire “intatto” ai nostri nipoti e pro-nipoti. ERNESTO PAPPALARDO direttore@salernoeconomy.it


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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