Glocal di Ernesto Pappalardo
Il “rebus” del credito alle imprese
Si parla tanto della crisi che non accenna a passare e dei ritardi del Mezzogiorno rispetto al Centro Nord e del gap che l’intero Paese accusa rispetto all’Europa e via discorrendo. Ma – stringi e stringi – al di là delle varie e talvolta opinabili analisi sulle cause di una situazione che definire grave è un eufemismo, la questione di fondo resta la mancanza di liquidità che attanaglia il circuito economico e produttivo. Ma perché non si riesce ad immettere “circolante” nel tessuto delle imprese? Qualche dato per provare a descrivere che cosa sta accadendo. Che il volume del credito sia in diminuzione – tanto per sgombrare il campo da equivoci più o meno interessati – lo scrive la Banca d’Italia nell’ultimo Bollettino Statistico: qualcosa come trentadue miliardi in meno nel periodo compreso tra ottobre 2011 e marzo 2012. Domanda: ma che fine hanno fatto gli euro resi disponibili dalla Bce di Mario Draghi? Nello scorso inverno le banche italiane hanno prelevato – ricorrendo a prestiti illimitati della Banca Centrale Europea – duecentosettanta miliardi di euro. Non proprio noccioline, che sono serviti, infatti, ad aumentare la base capitale dei grandi gruppi bancari per una ventina di miliardi di euro. A fronte di questi flussi in entrata, però, non si è potuto cogliere alcun riflesso significativo in uscita. Il Fondo Monetario Internazionale nel più recente rapporto sull’Italia sottolinea che sono aumentati i costi dei finanziamenti e si sta ricorrendo a criteri più restrittivi, soprattutto per le piccole e medie imprese. In poche parole il credito ai privati è diminuito del 2,75 per cento: vero e proprio “credit crunch al rallentatore”. Insomma: fino a questo momento gli euro della Bce sono stati utilizzati per puntellare e sostenere i conti delle banche italiane e non delle imprese o delle famiglie di questo Paese. Perché i colpi di una recessione lunga e difficile li hanno ricevuti per prime le banche, naturalmente. Che hanno pensato bene – ovvio – di “mettersi in sicurezza”, come si dice per non spiegare che la stretta creditizia c’è stata, c’è ancora e ci sarà fino a quando la burrasca non sarà alle spalle. Di quali colpi stiamo parlando? Dei cosiddetti finanziamenti “deteriorati”: rate di prestiti mai pagate; scoperti destinati a rimanere ancora più scoperti ed altro ancora. Anche qui un dato che spiega tutto: i crediti in qualche modo non prontamente esigibili dall’inizio della crisi sono saliti dal 5% (portafoglio totale dei prestiti delle banche) a quasi oltre il 12%. E per i debiti irrecuperabili si arriverà al 15%. Ora il problema vero – nello scenario ricostruito in maniera esemplare da Federico Fubini sul Corriere della Sera di giovedì 4 ottobre – è che fino a quando le banche non metteranno in chiaro quale sia veramente l’ammontare di crediti che vanno considerati perduti, non sarà possibile immettere denaro fresco ed abbondante nelle arterie dell’economia. Un cane che si morde la coda: la liquidità fino a questo momento messa in circolo dalla Bce è servita a mantenere la stabilità delle banche (e non è certamente poco), ma il costo lo hanno pagato caro i soliti noti: il debito di imprese e famiglie è salito vertiginosamente. E molti di questi prestiti ricevuti quando il denaro era ancora negoziabile a buon prezzo non saranno rimborsati. Senza un risanamento totale – che parte dalla reale dichiarazione di come stanno le cose nelle banche (e non tutte hanno gli stessi numeri, sia ben chiaro) – non usciremo da questa situazione. Non sarebbe meglio saldare i conti subito e, poi, finalmente provare a ripartire senza strette creditizie ed inasprimenti insostenibili? Non tutti la pensano in questo modo. Naturalmente, non sono problemi che si risolvono dalla sera alla mattina, ma, almeno iniziare a riconoscerli come tali sarebbe un passo in avanti estremamente significativo. E, invece, ci si barcamena all’italiana, mentre la commedia del “credit crunch” - c’è; è alle spalle; non c’è; forse c’è ancora - è destinata a continuare e a pesare sulle spalle di tutti noi. ERNESTO PAPPALARDO direttore@salernoeconomy.it
Glocal di Ernesto Pappalardo
La laurea? Non basta
22/09/2017
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.
di P. Coccorese
ed E. Pappalardo
Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare. [Continua]
Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
07/07/2017
Lo scenario.
Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]
| |