Glocal di Ernesto Pappalardo
Gli studi analitici più recenti confermano il rafforzamento dell’appeal del brand “Made in Italy” in tutto il mondo.“Filiere” e occasioni perse L’integrazione funzionale dei percorsi di agricoltura, agro-alimentare e turismo resta lo snodo strategico.
Il tema, per la verità, è abbastanza antico, ma continua a rimanere al centro dell’attenzione perché gli studi analitici più recenti confermano (ammesso che ce ne fosse ancora bisogno) che una delle partite strategicamente più rilevanti per il rilancio dell’economia nazionale – e meridionale in particolare – si gioca sul versante dell’integrazione funzionale tra il comparto primario (inteso nella sua accezione più estesa), l’agro-alimentare ed il turismo (o meglio: i turismi). Mentre assistiamo al pieno compimento della “rivoluzione” dei comportamenti personali rispetto al rapporto con il cibo e l’alimentazione – incentrata totalmente sul recupero del concetto di salvaguardia della salute fisica e mentale – stentiamo a renderci conto che l’Italia è il Paese che ha nelle sue mani la leadership assoluta del food di qualità. Sia dal punto di vista della materia prima (in moltissimi casi), che sul versante dell’elaborazione delle pietanze che arrivano in tavola. In altre parole: il Made in Italy è uno stile di vita con confini molto larghi: dai campi di coltivazione alle cucine degli chef o delle semplici massaie; dai paesaggi irreplicabili alle opere d’arte; dalla rete di borghi costieri e montani che attraggono turisti da ogni angolo della terra a giacimenti archeologici ed artistici che non hanno pari sul pianeta.
Il tallone di Achille, però, continua a risiedere nel netto ritardo accumulato rispetto all’esigenza di creare piattaforme territoriali competitive in quanto perfettamente capaci di integrare le varie filiere di produzione e di servizi al fine di mettere in campo “pacchetti” turistici “taylor made”. Ritagliati, cioè, su misura dei vari target turistici rintracciabili e profilabili anche grazie alle moderne tecnologie digitali. Proprio oggi che possiamo sapere quasi in tempo reale quali sono i gusti e le aspettative di masse di svariate milioni di aspiranti turisti in marcia verso l’Italia, non abbiamo ancora realizzato in maniera sistematica e strutturale la “mappa” delle offerte che i comprensori territoriali possono lanciare sui mercati internazionali. Nella maggior parte dei casi tutto resta ancora affidato alla buona volontà dei singoli imprenditori privati o di consorzi che si ritrovano ad agire in piena solitudine. Naturalmente, non sono poche le eccezioni virtuose – in primo luogo nelle regioni del Centro e del Nord dell’Italia – ma siamo ancora lontani da una fase di piena operatività di filiere innovative (Censis) all’interno delle quali occorre lavorare principalmente alla crescita qualitativa dei territori con diversi approcci aggregati soltanto dall’imperativo della qualità. Qualità dell’aria, dell’acqua, del ciclo dei rifiuti, delle produzioni agricole e dei processi di trasformazione, dei servizi alla persona ed alle imprese, delle materie prime e, ovviamente, della proposta turistica da immettere sui mercati puntando alla diversificazione dei target e ad un ciclo lavorativo dell’ospitalità attivo tutto l’anno.
E’ chiaro che non si tratta di un traguardo facile da raggiungere, ma è altrettanto evidente che non basta agitare confusamente gli “ingredienti” disponibili sui territori per crescere e migliorare le perfomance come accade, purtroppo, nelle località da anni inserite nei circuiti internazionali. Il vero problema è alimentare – orientandola verso l’alto (perché più redditizia e più conforme alla domanda) – una nuova offerta non cristallizzata, ma fluida e polifunzionale. Il ruolo del pubblico è senza dubbio importante (anche per il reperimento e la spesa delle risorse necessarie), ma è anche dal privato che devono venire spinte sistemiche. Il tempo per rimediare scarseggia ed è difficile vedere il bicchiere mezzo pieno. Ma, superando i localismi ed aprendosi a logiche di area vasta, i risultati positivi potrebbero arrivare prima di quanto lo scenario attuale lascia supporre.
Ernesto Pappalardo
direttore@salernoeconomy.it
@PappalardoE
Glocal di Ernesto Pappalardo
La laurea? Non basta
22/09/2017
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.
di P. Coccorese
ed E. Pappalardo
Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare. [Continua]
Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
07/07/2017
Lo scenario.
Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]
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