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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • Si continuano a declamare "parole-chiave" in relazione alla ripresa della crescita nelle regioni meridionali.Sviluppo 4.0, i ritardi delle P.A. Autorevoli analisti ribadiscono come usufruire di un vantaggio fiscale non significhi automaticamente generare investimenti consistenti nelle aree depresse.

    Il ritorno all’analisi della situazione per quello che è –  e non per quello che si vorrebbe fosse – è ormai una “pratica” giornalistica abbastanza poco diffusa. Al punto che la logica dei numeri è sempre più relegata negli spazi per gli “specialisti”, per gli “addetti” ai lavori. Nella “narrazione” prevalente della politica e dei protagonisti dell’economia – a parte le dovute, ma, purtroppo, rarissime eccezioni – c’è poco spazio per un sano richiamo alla realtà. Non si corre più il rischio (forse) di essere catalogati tra i “gufi”, ma, comunque, di sicuro si viene ancora inseriti nell’elenco di quanti non hanno affatto compreso la “rivoluzione” che sarebbe già in atto. L’errore, invece, appare sempre lo stesso: promulgare una legge – anche buona nei principi ispiratori – non significa affatto avere avviato la “rivoluzione” di cui sopra. Né – per sobria prudenza – sarebbe il caso di avventurarsi in previsioni sulle ricadute potenziali (per esempio) riconducibili ai crediti d’imposta ed al piano “Industry 4.0”. Alcuni autorevoli analisti – italiani e stranieri – continuano a ritenere che potere usufruire di un vantaggio fiscale non significhi automaticamente generare investimenti consistenti nelle aree depresse. In effetti, il problema primario – in queste aree – appare ancora legato alla liquidità o alla capacità di procurarsi credito da parte delle piccole imprese (che costituiscono, come è noto, il tessuto prevalente nella struttura produttiva delle regioni meridionali.
    Ma questo è solo uno degli aspetti poco emergenti nel dibattito mediatico: la questione della controversa relazione tra le banche e le aziende poco strutturate trova, per dire, “dolorosa” conferma nell’analisi delle sofferenze che evidenzia come a “pagare” il conto dei debiti più consistenti riconducibili alle grandi (e medie) imprese, siano proprio le più piccole che – nonostante le difficoltà – risultano maggiormente orientate alla restituzione dei finanziamenti ricevuti. Naturalmente, sono disponibili numerose e diverse opportunità in fondi agevolati per le Pmi, ma l’effetto diffuso è ancora poco percepibile (almeno al Sud).
    In questo contesto, la “gamba” pubblica – in primo luogo i Comuni – non solo sono mediamente molto lontani da standard di efficienza ed efficacia rispetto alle risposte che riescono a dare alla domanda di servizi e di assistenza richiesti dalle imprese, ma molto spesso non sono ancora nella dimensione “smart”. Non è una banalità affermare che un’industria che intende diventare “4.0” ha bisogno di un partner territoriale pubblico – per quanto di sua competenza (e non è poco) – almeno sintonizzato con le esigenze di una progressiva digitalizzazione dell’economia.
    E’ evidente che lo scenario resta complicato, a tutto discapito di quelle imprese che - nell’ambito del processo di polarizzazione delle attività produttive -  sono riuscite a mantenere il passo con il mercato, diventando competitive e, quindi, agganciando l’indispensabile treno dell’innovazione tecnologica. Per intenderci: ma come si fa a parlare di industria “4.0” se non è scontato – come dovrebbe da tempo essere – ottenere (soprattutto in certe aree del Mezzogiorno) una connessione a internet ad una velocità adeguata alle esigenze di un’impresa? Ma come si fa ad interagire con una Pubblica Amministrazione che ha “trasportato” nella corrispondenza online la nefasta tempistica della corrispondenza cartacea?
    Insomma, c’è ancora molto da fare. E questa è un’ovvietà. Ma, almeno, risparmiateci il refrain mediatico di una dirompente ed inarrestabile avanzata dell’economia intelligente e digitale che – al momento – resta in buona parte un auspicio per i prossimi anni (pochi si spera).
    Ernesto Pappalardo
    direttore@salernoeconomy.it
    @PappalardoE 


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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