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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • Le analisi più recenti confermano la disarticolazione della maggior parte del tessuto produttivo soprattutto nelle regioni meridionali.
     
    Più coesione, più competitività
     
    Preoccupa l’abissale lontananza della politica e delle istituzioni dalla consapevolezza di dovere intervenire a fondo per ricompattare fiduciariamente le varie componenti del sistema socio/economico dei tanti territori da troppo tempo abbandonati a se stessi.
     

    La parola/chiave di queste ultime due settimane all’interno della newsletter di www.salernoeconomy.it è stata “coesione sociale”. Lo spunto (forte) è venuto dalla ricerca Symbola/Unioncamere (sulla quale abbiamo deciso di ritornare anche questo venerdì 22 luglio). Perché? Perché ci è parso di riconoscere lo snodo centrale intorno al quale approfondire ulteriormente le tematiche che fin dalla nascita (il 4 gennaio 2012) caratterizzano il progetto editoriale del nostro blog “di informazione economica”. La strategicità dei territori non è soltanto uno slogan facile per catturare consenso politico declamato dai tanti cacicchi che si aggirano nelle stanze del potere locale ( e non solo al Sud). In tempi di “antropologia dell’incertezza” e di “turbolenza della competizione” (copyright Aldo Bonomi, il Sole24 Ore del 17 luglio scorso) che cosa resta come riferimento non effimero di cui tenere conto se non il territorio inteso nella sua valenza complessiva di area geografica con sue irreplicabili coordinate economiche e produttive e comunità che su di essa insiste? Che cosa resta se non l’unico capitale che non si può acquistare o produrre industrialmente e che non può che essere quello sociale/relazionale? E’ del tutto evidente – come conferma, tra l’altro, la comparazione tra indice di coesione sociale ed indicatori più tradizionali (Pil pro capite, fatturato e propensione all’export delle aziende eccetera eccetera) – che bisogna insistere nell’azione di stimolo e di accompagnamento alla costruzione di reti virtuose locali in grado di intercettare i grandi flussi di produzione della ricchezza a livello internazionale. Insomma, occorre necessariamente ripartire dal basso, privilegiando la logica dell’inclusione che, naturalmente, si traduce in rafforzamento delle dinamiche di coesione. Senza dialogo non si va da nessuna parte , si perdono per strada “pezzi” importanti di consenso sociale, fino a strutturare “muri” e periferie. Si arriva ad attraversare il confine che separa il concetto di comunità da quello di isolamento individuale: un percorso che molto facilmente si trasforma in marginalizzazione e polarizzazione di persone e di aziende. Da una parte chi ha vinto la sfida della crisi (poche persone e poche aziende); dall’altra tutti quelli che l’hanno persa (molti, soprattutto nel Mezzogiorno). E, poi, c’è la terza componente: quella di tutti i giovani meridionali che non hanno avuto altra scelta che preparare la valigia e andarsene in giro per l’Europa a proporre il loro talento (formato, con notevoli costi di natura pubblica e privata, qui da noi, senza alcun ritorno in termini di miglioramento qualitativo della forza produttiva, dirigenziale, manageriale eccetera eccetera). “Senza la coesione sociale delle istituzionali locali – sintetizza sempre Bonomi – della parti sociali sino alle Camere di Commercio e senza la condensa della microeconomia delle nostre imprese da capitalismo di territorio non si dà competizione”. Solo avendo chiara questa visione si può arrivare a rendere concreti i concetti di smart city, ma, soprattutto, di smart land. Occorre cioè, essere coerenti con l’idea di sviluppo territoriale dal basso non alzando anacronistiche barriere neo/municipalistiche, ma lavorando alla costruzione di aree vaste effettivamente competitive ed attrattive e, soprattutto, superando - per quanto possibile - la strettoia dell’intermediazione politica. La strada degli automatismi legati alle premialità ed alle compensazione fiscali resta una delle migliori, ma la leva degli investimenti e del partenariato pubblico/privato si conferma fondamentale.
    Alla luce delle analisi più recenti – mettendo da parte la stucchevole “guerriglia” degli zero virgola un giorno sì e l’altro pure – non ci sono troppe fondate ragioni per credere che alle porte si profili un ciclo positivo duraturo. Ma quello che più preoccupa è l’abissale lontananza della politica e delle istituzioni dalla consapevolezza di dovere intervenire a fondo per ricompattare fiduciariamente le varie componenti del sistema socio/economico dei tanti territori da troppo tempo abbandonati a se stessi, all’interno dei quali pure si colgono fenomeni di spontaneismo positivo (ma non in grado di trainare la ripartenza).
    ERNESTO PAPPALARDO
    direttore@salernoeconomy.it
    @PappalardoE
     


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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