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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • Tra neo/municipalismo e salti di scala per costruire percorsi di sviluppo dal basso.
     
    I territori “intelligenti” Tutto quello che “chiude” i confini e non “apre”, invece, le comunità fino a consentire la creazione di aree vaste (anche e soprattutto intelligenti, digitalizzate), diventa un “segno” di regressione politica e culturale. Ma l’invasività di quello che resta dei partiti è a sua volta il “segno” della decadenza della cultura del bene pubblico.

    In tempi di verticalismo decisionale e di ridimensionamento delle autonomie amministrative diventa più difficile riposizionare le politiche di sviluppo al servizio dei territori, dei luoghi, delle culture e dei sistemi economici locali. L’”urgenza” di “efficientare” la macchina burocratica pubblica ha – di fatto – avallato un processo di accentramento politico che spesso maschera una ferrea determinazione nel costruire e blindare catene di controllo del consenso prim’ancora che delle attività tipiche del pubblico. La mitizzazione dell’elezione diretta dei sindaci produce ancora – non solo al Sud – l’effetto/“cacicchi”: sindaci, cioè, che si percepiscono come emanazione del popolo – e non dei cittadini – e, quindi, catalizzano ogni possibile disegno di (micro) crescita. Con quali conseguenze? La perdita pressoché totale di una visione meno contratta di quella neomunicipalistica che, intanto, fa leva sulla stimolazione del senso di appartenenza, sull’identità di piccole comunità che - senza intaccare, è ovvio, minimamente le caratteristiche tipiche anche del più piccolo dei comuni – dovrebbero, invece, essere indirizzate verso la realizzazione di un salto di scala in termini di aggregazione di potenziale di sviluppo. Insomma, l’esatto contrario di quanto quotidianamente viene imposto dalla necessità della competizione tra piattaforme territoriali in grado di attrarre investimenti finanziari, capitale umano competente e qualificato (endogeno ed esogeno), flussi di turisti e di imprese, eccetera eccetera.
    In questo contesto regressivo - purtroppo soprattutto nel Mezzogiorno – si inserisce l’urgenza di lavorare tenendo conto di un’unità di misura che non può che essere quella dell’area vasta. Ma in quale accezione? L’intervento del professore Pasquale Persico - che ospitiamo in questo numero della newsletter di www.salernoeconomy.it - è molto utile per chiarirsi le idee su come possa essere interpretata in maniera dinamica e non conservativa il concetto di area vasta. Per Persico l’area vasta deve fare riferimento ad “uno spazio di rottura degli  attuali confini culturali e disciplinari che ci fa entrare  con una nuova soggettività territoriale nell’ambito della cosiddetta seconda globalizzazione (territori resilienti con vantaggi competitivi localizzati, sia in termini di potenziale creativo, che di autonomia strategica)”. Fino a fare emergere “la nuova visione della città delle reti  e delle infrastrutture” che “cambia la dimensione della città e rende difficile o improbabile riconoscere elementi di riferimento dell’appartenenza alla nuova aggregazione geografica”. Territori resilienti con vantaggi competitivi localizzati sia in termini di potenziale creativo, che di autonomia strategica: siamo di fronte, quindi, alla necessità di allargare i confini e di condividere in maniera policentrica le risorse di aree significativamente compatibili - per storia e vocazione, per capacità produttiva, per risorse ambientali e paesaggistiche eccetera eccetera – anche al di la della vicinanza geografica. Dal punto di vista produttivo, l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione dei processi è un’opportunità in più per tutte le esperienze d’impresa che fondano il loro valore aggiunto sulla qualità. Per non parlare delle possibilità offerte dalla costruzione di network turistici dedicati a target specifici di visitatori.
    E’ del tutto evidente che si concretizzano nuovi orizzonti a partire, però, dalla preservazione del meccanismo che ha sempre premiato i processi di crescita dell’economia italiana: lo sviluppo dal basso. Non tanto dal punto di vista dell’aggregazione e della crescita dimensionale delle piccole aziende, ma lavorando intelligentemente sul versante dell’integrazione di filiera. I big player diventano, quindi, i motori di una dinamica che è in grado di generare una crescita qualitativamente elevata con benefiche ricadute a cascata.
    Ha ancora senso muoversi, invece, in una logica municipalistica derivante prioritariamente dalla “necessità” di proteggere le rendite di posizione politica e la conseguente intermediazione dell’accesso ai finanziamenti pubblici? Ha ancora senso proteggere “filiere” di P.A. politicamente omogenee e, quindi, rafforzare il trend del verticalismo decisionale? Tutto quello che “chiude” i confini e non “apre” i territori fino a consentire la creazione di aree vaste (anche e soprattutto intelligenti, digitalizzate), diventa un “segno” di regressione politica e culturale. Ma l’invasività di quello che resta dei partiti è a sua volta il “segno” della decadenza della cultura del bene pubblico.
    ERNESTO PAPPALARDO
    direttore@salernoeconomy.it
    @PappalardoE


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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