Glocal di Ernesto Pappalardo
L’analisi del presidente del Censis mette a fuoco le parabole strutturali dei percorsi di sviluppo dell’economia italiana dagli anni ’70 in poi.De Rita: Pmi orientate verso la logica di filiera Sul Corriere della Sera (domenica 29 maggio): “Non basta un’innaffiata di sgravi, bonus ed incentivi. Occorre collegarsi alla dinamica spontanea delle piccole imprese: esse non vanno verso il primato delle grandi dimensioni”.
Il dibattito è aperto da tempo. Le analisi sul “nanismo” delle imprese italiane – e meridionali in particolare – sono numerose ed anche molto autorevoli. Come pure le critiche alla scarsa propensione all’aggregazione e, insomma, alla crescita per progressiva acquisizione (attraverso dinamiche endogene o esogene) di massa critica. A pensarci bene si tratta di uno dei temi fondamentali, alla base di politiche industriali (?) e di interventi che pure hanno alimentato grandi aspettative e non solo di recente. L’intervento del presidente del Censis Giuseppe De Rita (Corriere della Sera di domenica 29 maggio) proprio su questo argomento consente di avere una visione molto limpida del problema. “La realtà – scrive De Rita – vince sempre sulle intenzioni di sviluppo, se queste non tengono conto della base su cui lavorare. A tal fine converrà ricordare con una logica continuista che non è molto di moda, i processi reali con cui fare i conti: i tre percorsi su cui si è costruito il modello di sviluppo italiano dagli anni ’70 in poi”. De Rita fa riferimento a tre dinamiche principali: l’avanzata delle piccole e medie imprese (ed è il focus che ci interessa approfondire in questa sede); l’esplosione del ceto medio e la centralità della famiglia. Per quanto concerne specificamente le Pmi De Rita va diritto al punto. “Non basta rinnegare – sottolinea – l’esplosione delle piccole e piccolissime aziende e imprese; fare prediche sul nanismo imprenditoriale con accorati inviti a crescere, crescere, crescere; ma non basta neppure una innaffiata di sgravi, bonus ed incentivi. Occorre, invece, collegarsi alla dinamica spontanea delle piccole imprese: esse non vanno verso il primato delle grandi dimensioni, ma verso la progressiva inserzione in una logica di filiera (settoriale o di prodotto che sia)”. Molto chiaro anche lo sbocco di questo approccio analitico: “Se si vuole ottenere la progressiva vitalità del sistema di impresa, la strada è obbligata: bisogna privilegiare la logica e la logistica della filiera e bisogna incentivare i comportamenti delle imprese a starci dentro”.
Insomma, la pioggia di soldi – in forma di bonus o di premialità fiscali – non può risolvere il problema di fondo: conferire vitalità produttiva e (si spera) anche occupazionale ad un sistema che faceva già molta fatica ad essere competitivo prima della grande crisi e che oggi stenta e marca il passo rispetto alle altre economie europee. Pare di capire - approfondendo anche le analisi di altri studiosi delle dinamiche economiche e del lavoro in particolare – che è il sistema/Italia nel suo complesso che si è fermato progressivamente negli anni, determinando prima di tutto una grave crisi di fiducia nel futuro. Se lo Stato e le sue articolazioni centrali e periferiche non sono apparse in grado di alimentare una visione positiva – attraverso la fallimentare gestione dei servizi e delle pratiche amministrative sostanziali – e capace di stimolare investimenti privati, bisogna oggi accettarne le conseguenze in termini di diffidenza e di infinita attesa prima di rimettersi a rischiare (sia come imprenditori che come privati cittadini). L’enorme massa di liquidità disponibile attraverso la gigantesca operazione QE della Bce non trova ancora una modalità di trasmissione rapida ed efficace all’economia reale perché si continua a sottovalutare la crisi profonda – soprattutto al Sud – del patto fiduciario cittadini/istituzioni. Se il cavallo non beve come potrebbe, avrà le sue buone ragioni dopo tante delusioni e dopo tante incertezze che alla fine hanno penalizzato in primo luogo i comportamenti virtuosi (delle aziende e delle famiglie per capirci bene).
Ora – come argomenta De Rita – non si può cambiare solo con i soldi l’approccio “culturale” delle Mpmi che costituiscono la spina dorsale del tessuto imprenditoriale italiano. Si può/si deve saggiamente seguire la strada delle politiche di filiera, integrandole con un rilancio qualitativo (e quantitativo) dell’infrastrutturazione logistica dei territori. Non è un progetto semplice. Ma prima di tutto sarà indispensabile dimostrare che lo Stato può riuscire a mantenere le promesse e a smettere di dire sempre quello che farà. Sarà il caso di cominciare prima a fare e, poi, a dire. Ma questa è la parte più difficile. Soprattutto in tempi di storytelling e di narrazioni mediatiche a più non posso.
ERNESTO PAPPALARDO
direttore@salernoeconomy.it
@PappalardoE
Glocal di Ernesto Pappalardo
La laurea? Non basta
22/09/2017
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.
di P. Coccorese
ed E. Pappalardo
Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare. [Continua]
Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
07/07/2017
Lo scenario.
Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]
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