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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • L’analisi comparativa degli indicatori in ambito europeo evidenzia la gravità dei ritardi del Mezzogiorno.Oltre le “ricette”? I soliti “problemi” Anche i numeri elaborati dal Censis confermano la situazione estremamente difficile delle aree meridionali e della Campania in particolare sotto il profilo del Pil pro capite e dell’occupazione.

    Si potrà anche obiettare che la musica è sempre la stessa e che riascoltarla in continuazione non giova in termini di immagine e di marketing politico. Da questo punto di vista l’attenzione sempre più maniacale alla comunicazione da parte della politica e delle istituzioni - a tutti i livelli - ha le sue buon ragioni. Ma è indiscutibile che il continuo martellare sul bicchiere mezzo pieno non cancella affatto le problematiche strutturali del Mezzogiorno. Insomma, va bene non fare i gufi e non iscriversi al partito degli anti/Renzi per partito preso, ma non è nemmeno possibile chiudere gli occhi di fronte alla triste realtà di un’intera area del Paese – il Sud – e di una regione – la Campania – che da troppo tempo mettono in mostra numeri davvero “difficili”, che da soli disegnano lo scenario di una situazione che non si può “riparare” a colpi di slogan. E che, soprattutto, ha bisogno di risorse (non poche) e di tempo (non poco) per provare ad invertire in maniera non effimera una rotta che porta diritto diritto sugli scogli dell’incaglio disastroso. 
    Tra il 2010 e il 2014 - ha spiegato il Censis - il Pil del Sud ha registrato una riduzione dell'8% in termini reali, quasi quattro volte peggio rispetto al Nord-Ovest (-2,9%) e al Nord-Est (-2,7%), e quasi il doppio rispetto al Centro (-4,3%). In Europa il Pil pro-capite più alto si registra nell'Inner London (94.100 euro) ed è pari a quello di sei residenti in Calabria. E va anche aggiunto che un cittadino di Bolzano ha un Pil pro-capite equivalente a quello di quasi tre calabresi. Giusto per rendersi conto di come si articola il dualismo tra Nord e Sud e dell’Italia. E per concludere il bel “quadretto”: quattro regioni meridionali (Sicilia, Campania, Calabria e Puglia) si collocano agli ultimi quattro posti della graduatoria europea - sottolinea sempre il Censis - per tasso di occupazione della popolazione con età tra i 15 e i 64 anni, al di sotto di regioni come le spagnole Ceuta e Melilla, della Réunion francese e “addirittura di tutte le regioni della Grecia e del Portogallo”. Il Censis per tutte queste più che valide ragioni ha motivo di credere che siamo di fronte ad una “secessione di fatto” del Mezzogiorno.
    Non c’è niente da fare. La descrizione della realtà è esattamente questa. Non si può girare troppo intorno alle cifre (impietose). Ma, proprio per non sembrare eccessivamente pessimisti (o, peggio ancora, disfattisti rispetto al cantico della ripartenza che proviene da tutti i megafoni possibili ed immaginabili), è il caso di concentrarsi con la giusta attenzione sulle vie di fughe che puntualmente la maggioranza degli analisti ha da tempo individuato e che – inspiegabilmente – non si riescono ad aprire e a realizzare.
    Quali sono queste benedette vie di fuga per il Censis? “Oggi i territori italiani con i tassi di occupazione più alti sono caratterizzati da una specializzazione produttiva turistica o agroalimentare”. E, soprattutto, le esperienze monitorate dalla ricerca e risultate più performanti indicano che “la filiera del cibo ‒ dalla produzione alla distribuzione, al consumo ‒ è oggi un formidabile moltiplicatore di opportunità per i territori: agroindustria, ristorazione, turismi diventano le componenti di nuove ibridazioni tra i patrimoni enogastronomici, culturali, paesaggistici, storici dei territori”.
    La filiera del cibo, quindi, deve tendere a mettere in rete il settore primario con quello della trasformazione agro/industriale, entrando in stretta connessione con il “capitale” più prezioso dei territori: ambiente, cultura, paesaggio. 
    Apparentemente è un percorso semplice. Ma – si dimentica – che a questo punto diventa anche obbligato. Alternative non sembrano essercene all’orizzonte. Quello che manca – drammaticamente – non è tanto la consapevolezza delle cose da fare, ma la reale capacità concreta di operare delle macchine lente ed inefficaci della Pubblica Amministrazione. Oltre che – ma questo è un altro elemento “scontato” – la volontà politica di abbandonare la logica dell’intermediazione degli investimenti e della spesa sui territori.
    Tutte cose chiare ed assodate da tempo. Ma – è risaputo – il tempo in Italia e soprattutto al Sud ha una un’unità di misura che coincide con l’intervallo tra una campagna elettorale e l’altra. Con tutte le nefaste conseguenze che dalle nostre parti conosciamo molto bene.
    ERNESTO PAPPALARDO
    direttore@salernoeconomy.it


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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