Glocal di Ernesto Pappalardo
L’analisi della Banca d’Italia conferma lievi segnali di miglioramento, ma occorrerà ancora molto tempo per ritornare ai livelli del 2007.La crisi? Dopo i giochi della politica I numeri e le statistiche confermano le differenze: solo le aziende medio/grandi riescono a cogliere i vantaggi derivanti da alcune variabili “macro”. Per la maggioranza delle Pmi la situazione resta difficile.
L’attenzione è ancora tutta incentrata sulla situazione politico/istituzionale, ma il quadro che emerge dall’analisi della Banca d’Italia diffusa nei giorni scorsi resta complesso e difficile soprattutto per le piccole e piccolissime imprese (che sono, poi, la stragrande maggioranza di quelle operanti in Campania ed in provincia di Salerno). La sensazione è che sia in atto un cambio di sentiment soprattutto tra le grandi aziende, quelle posizionate meglio rispetto ai mercati esteri e che riescono ad ottenere maggiore attenzione dal circuito bancario nei momenti più critici. A fronte, comunque, di un’attenuazione complessiva della flessione dei finanziamenti al sistema economico e produttivo regionale, si configura, in ogni caso, un persistente e diversificato atteggiamento nei confronti proprio delle imprese più piccole, verso le quali occorrerebbe, invece, indirizzare segnali di maggiore apertura. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole del Mezzogiorno, ma, naturalmente, anche nessuna reale inversione di tendenza nonostante il QE di Mario Draghi. Niente da fare: alla maggior parte delle Pmi del Sud e della Campania non arriva ancora un flusso di credito più consistente.
Né – fatto ancora più grave – si intravede almeno la sagoma di un vero e proprio piano strutturale di investimenti pubblici con obiettivi precisi. Al contrario: a leggere tutti i dati disponibili (Svimez e Banca d’Italia) la frenata appare in tutta la sua ampiezza proprio nelle regioni meridionali. E, allora, se si sommano i rubinetti sempre molto difficili da forzare delle banche ed il permanere del deserto degli investimenti, si capirà bene perchè solo le aziende con le spalle veramente larghe e capaci di interloquire con una vasta tipologia di mercati (soprattutto esteri) possono mostrarsi meno pessimiste degli anni scorsi.
Va anche detto, però, che non mancano esempi di imprese piccole che sono riuscite a sopravvivere ottimizzando la propria capacità gestionale e ricorrendo all’innovazione. Ma il tessuto diffuso – soprattutto nei settori cosiddetti maturi – continua a soffrire anche in considerazione della riduzione significativa del “panel” di buoni clienti. Quali? Quelli che pagano regolarmente e che hanno tempi di vendita e di incasso ancora adeguati alle necessità di sopravvivenza dei propri fornitori.
La verità è che manca qualsiasi riferimento concreto in grado di rimettere veramente in moto la “produzione” ordinaria di “circolante”: la nuova liquidità proveniente da investimenti pubblici, privati o pubblico/privati non c’è e non può esserci perché per ragioni differenti nessuna delle parti in causa (P.A. ed aziende) ha potuto procedere in questa direzione. Il pubblico perché anche in presenza di massicci giacimenti di risorse disponibili ha perso tempo prezioso e solo nei prossimi dodici mesi potranno (forse) vedersi le ricadute derivanti dallo svolgimento più intenso delle gare per lavori pubblici ed infrastrutture; i privati perché le banche hanno stretto i cordoni della borsa per evitare ulteriori sofferenze (ma anche determinando una stagnazione della domanda pure in presenza di progettualità valide).
E’ successo, cioè, che si è perso per strada il valore di indirizzo della politica e delle istituzioni. Di fronte alla crisi è prevalsa la logica ragioneristica dei conti a posto prima di tutto da un lato (dal Governo Monti in poi, fino ad arrivare ai livelli istituzionali inferiori attraverso un devastante effetto-domino); mentre dall’altro (quello delle aziende) si è assistito a che cosa significa la selezione naturale del mercato: posti di lavoro e decenni di storia industriale spazzati via. Senza alcuna distinzione tra crisi finanziarie e crisi industriali. Un “delitto” che resterà sulla coscienza di una classe politica ed istituzionale - e di un ceto dirigente bancario mediocre ed ostaggio della tecnocrazia made in Ue - tra le più fallimentari che il Sud abbia mai espresso. Senza distinzione di colore politico/partitico (ovviamente).
Ed in mezzo a tutto questo polverone resta ancora da attendere mesi per capire se nella cabina di regia a Palazzo Santa Lucia a Napoli sapranno mettere in campo la manovra di salvataggio. O sarà soltanto un altro false “allarme” per l’economia della Campania.
ERNESTO PAPPALARDO
direttore@salernoeconomy.it
Glocal di Ernesto Pappalardo
La laurea? Non basta
22/09/2017
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.
di P. Coccorese
ed E. Pappalardo
Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare. [Continua]
Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
07/07/2017
Lo scenario.
Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]
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