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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • Dopo le elezioni comunali pochi accenni di autocritica da parte dei democrat.Il “furbismo” Pd non sempre paga Lo svuotamento del ruolo degli organismi dirigenti non consente di procedere ad un vero rinnovamento della rappresentanza politica. La forma del partito “liquido” non funziona nei territori.

    Di questi tempi – quando anche i partiti sono “liquidi” – capita che all’improvviso le leadership sostanzialmente mediatiche (e cioè senza una base territoriale ampia ed organizzata di consensi) si ritrovino a fare i conti con qualche schiaffo in faccia che lascia il segno. La sconfitta alle comunali del Pd (e dell’impostazione verticistica che Renzi - nella foto a sinistra - ha imposto al partito) significa sostanzialmente che quando si scende sul campo di battaglia vero – quello fatto ancora di un “porta a porta” non televisivo – diventa molto complicato fare digerire alle comunità il partito che non c’è. Il partito che si materializza prevalentemente in televisione è molto utile (lo ha insegnato a tutti Silvio Berlusconi) per sollecitare l’immaginazione e per fare quello che oggi va di moda chiamare storytelling (che, poi - ha spiegato di recente Antonio Polito - significa, appunto, raccontare storie). Il modello-Renzi sembra assecondare la persistenza di un partito  che è, ormai, sempre più suddiviso in tanti feudi locali. Un modello che – più nel male che nel bene – non può consentire di aprire porte e finestre e di procedere al quel ricambio generazionale di cui proprio Renzi ha saputo beneficiare con grande arroganza e disinvoltura. E’ un po’ la legge del contrappasso: il presidente del Consiglio/segretario nazionale del Pd che tutti avrebbe voluto rottamare, deve adesso fare i conti (in primo luogo al Sud) con i leader locali che di fatto non rispondono (e non risponderanno mai) a lui. Perché? Perché da quando ha preso in mano il partito non ha fatto altro che sminuire e quasi ridicolizzare i luoghi del confronto interno. Le riunioni di direzione e le assemblee dei gruppi parlamentari a colpi di maggioranza, l’approvazione addirittura di una legge elettorale in piena solitudine sono la dimostrazione concreta di come lo svuotamento dei processi democratici all’interno della forma/partito sia l’anticamera di un verticismo decisionista basato esclusivamente non sul consenso, ma sul controllo dei meccanismi che assicurano il consenso. 
    E così sui territori è scomparsa la militanza d’opinione ed è rimasta solo l’appartenenza servile o per interesse personale. In una parola: la fine della politica e dei partiti. Il risultato è che hanno vinto – al Sud prima di tutto – quelli che originariamente dovevano essere rottamati, quelli che non sono mai stati renziani della prima ora. Quelli che, alla fine, comandano e basta seguiti militarmente dal partito (o meglio: da quell’aggregato indecifrabile che ne resta) senza neanche più aprire dibattiti o riflessioni su niente. Contano i voti, i successi elettorali. Né si può “perdere tempo” a discutere della composizione delle alleanze. Del resto è stato sempre Renzi ad inventare il “patto del Nazareno” ed a giovarsi di un modello che ormai non consente più di distinguere tra partiti di maggioranza e di opposizione. La logica del successo a tutti i costi, del mutamento, della velocità, delle mille riforme messe in campo (ma quante, poi, sono arrivate o arriveranno veramente a destinazione?) a che cosa porta dal punto di vista della coerenza sostanziale di un partito o di un movimento politico con le idee ed i progetti che esso elabora e propone? Il Pd, per questo complesso di ragioni, oggi appare già ridotto ad un comitato elettorale permanente (e di certo non solo a Roma). 
    Ma dai territori è arrivata una prima risposta abbastanza chiara, sebbene già fagocitata nel frullatore mediatico sempre pronto ad inseguire la superficie delle notizie e quasi mai l’analisi dei tempi lunghi. Dal basso si è tentato di richiamare tutti alle ragioni del buon senso: dove il Pd non ha potuto raccontare la favola del cambiamento, non avendo alcun progetto e non avendo alcuna strategia per risolvere i problemi veri delle persone in carne ed ossa, ha perso. Ed ha perso anche perché da tempo la questione morale al suo interno viene recitata con troppe variabili e con troppi doppi pesi e doppie misure. 
    La categoria del “furbismo” non sempre funziona quando si vota per il proprio Comune. Ma lo storytelling del Pd è già avanti. E’ pronta la campagna d’estate. Con tanti saluti a quella che un tempo si chiamava analisi del voto. Ora basta andare da Vespa e lanciare i nuovi spot, i nuovi slogan e, poi, si vedrà. Per fare entrare aria veramente fresca c’è sempre tempo (dicono a Roma e in molte altre parti del Sud).
    ERNESTO PAPPALARDO
    direttore@salernoeconomy.it


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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