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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • I dati contenuti nel dossier sulla disuguaglianza economica della Fondazione Hume
     
    L’esercito degli “invisibili” risiede al Sud Circa 4,7 milioni di persone nelle regioni meridionali sono ai margini del mercato del lavoro: occupati in nero, disoccupati, scoraggiati. Tutti accomunati dalla mancanza di garanzie e tutele.
     

    Sono i soggetti invisibili, i “senza rete”, il “microcosmo degli esclusi o outsider”. Chi sono veramente? “Coloro che lavorano in nero (spesso immigrati), quindi senza alcuna garanzia, ma anche i disoccupati che cercano attivamente un'occupazione e i lavoratori scoraggiati che il lavoro non lo cercano perché non confidano di trovarlo”. Sono in netta maggioranza giovani e donne i principali protagonisti di quella che è stata definita “Terza società” (Carmine Fotina, il Sole 24 Ore del 26 aprile scorso). Nove milioni di persone in Italia (censiti nell’ambito del dossier sulla disuguaglianza economica della Fondazione David Hume) che costituiscono la “Terza società”, quella che viene dopo la Prima (lavoratori garantiti, dipendenti pubblici e privati permanenti nelle grandi aziende) e la Seconda (soggetti considerati più esposti al rischio, le piccole imprese, i loro addetti, e i lavoratori autonomi). I numeri sono semplicemente impressionanti. I dati riferiti al 2014 “raccontano” di 9 milioni di esclusi con quasi 3,2 milioni di occupati in nero (36% del totale), 2,9 milioni di inattivi disponibili a lavorare ma senza un impiego irregolare (32,6%) e 2,8 milioni di disoccupati “veri” (31%).
    Ma il dramma nel dramma è che oltre la metà della Terza Società – qualcosa come 4,7 milioni di persone – risiede nelle regioni del Sud. “Anche basandosi sul peso rispetto alla popolazione attiva - spiega Fotina - spicca una netta differenza con un'incidenza del Mezzogiorno del 46,7%”. Va precisato che la Terza Società “si espande in tutte le ripartizioni e questa crescita è maggiore dove si è fatta sentire di più la crisi dei settori produttivi, quindi Nord-Est e Nord-Ovest”. Ma “a determinare lo squilibrio finale sul Mezzogiorno è la differente riduzione del lavoro nero, che al Sud si è limitata al 7,7% tra 2007 e 2014, mentre nelle altre ripartizioni sfiora il 20%”.
    Questo quadro complessivo è una delle drammatiche conseguenze della crisi che ha picchiato duro, naturalmente, molto di più nelle aree del Paese dove già si registrava da tempo un indebolimento strutturale in termini di competitività economica. Insomma, dove era in corso da decenni un lento ed inesorabile declino del modello produttivo non più in grado di auto-adeguarsi alle dinamiche del mercato interno ed internazionale.
    La situazione del Mezzogiorno si inserisce “perfettamente” nel quadro internazionale del Sud Europa. Il peso della società degli esclusi in Italia (28,8%) è “il quinto più elevato e notevolmente più alto rispetto alla media Ocse (17,2%) e Ue (20,2%)”. Ma “nel confronto internazionale, a colpire è come il fenomeno caratterizzi con misure più accentuate ancora una volta il Sud - sottolinea Fotina - sebbene in questo caso si parli di Europa del Sud”. Nella graduatoria precedono l’Italia quattro Paesi “con valori superiori al 30% Grecia, Croazia, Spagna, Bulgaria”. Cinque dei primi sei Paesi appartengono, quindi, “al Sud Europa e sono proprio quelli nei quali è più evidente la penalizzazione di giovani e donne nel mercato del lavoro”.
    Lo scenario per la Campania e le altre regioni del Mezzogiorno, nel contesto nazionale ed europeo, è senza dubbio allarmante. Le diseguaglianze dovrebbero essere la priorità in qualsivoglia “ragionamento” politico ed istituzionale, se non altro per il grado di rischio sempre più elevato che alimentano sul versante della coesione sociale. Mentre si è intervenuto sulla flessibilità del lavoro garantendo principalmente maggiore flessibilità in uscita, non appaiono ancora chiare in Campania – come nel resto del Sud e dell’intero Paese – le politiche attive in grado di non lasciare solo il lavoratore nel momento della perdita dell’occupazione e nella delicata fase della ricollocazione. A meno che non si voglia sostenere che il modello dei Centri per l’Impiego (così come si presenta oggi) sia una risposta valida. In altre parole, la Terza Società appare al momento destinata a crescere in tutta l’area meridionale.
    Ma a preoccupare maggiormente è l’approccio (?) complessivo della politica nostrana tutta immersa nel pieno di una campagna elettorale particolarmente inconsistente dal punto di vista della proposta programmatica sui temi del lavoro e del rilancio del sistema produttivo. D’altro canto “narrare” il disastro nel quale proprio la politica (senza alcuna distinzione tra gli schieramenti in campo) ha precipitato il Sud senza assumersene sostanzialmente le responsabilità e, nello stesso tempo, dare conto di cifre, coperture, bacini di finanziamento e progetti realistici per uscire dall’emergenza lavoro, è un esercizio davvero molto difficile. Anzi, quasi impossibile.
    ERNESTO PAPPALARDO
    direttore @salernoeconomy.it


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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