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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • Dopo la scomparsa (il 14 febbraio) del fondatore Michele, l’inventore della “Nutella”La lezione della Ferrero, azienda-comunità Il profilo di una delle principali multinazionali presenti in Italia conferma il carattere fondante di una straordinaria avventura imprenditoriale che non ha mai perso di vista il legame con il territorio di origine.

    Nei giorni scorsi (sabato 14 febbraio) è scomparso Michele Ferrero, proprietario dell’omonima multinazionale e mitico inventore della “Nutella”. Un uomo capace di creare dal nulla un gruppo da 8,4 miliardi di ricavi e 34mila addetti. Sta in questi due parametri di riferimento l’entità dell’impresa compiuta attraverso un percorso che è già da tempo diventato paradigma di quel capitalismo familiare in grado di trasformare un Paese contadino come l’Italia uscita malconcia dal dopoguerra in una delle principali potenze produttive mondiali (nonostante i ripetuti colpi ricevuti dalla classe politica con particolare intensità nell’ultimo trentennio). Ma la ragione per la quale è importante riprendere la notizia già ampiamente approfondita ed analizzata da tutti i quotidiani risiede in una caratteristica di grande attualità (osservata soprattutto da Sud) che valorizza ancora di più (se possibile) il percorso attivato da Michele Ferrero. In tutto l’arco della sua vita oltre a preoccuparsi di creare personalmente i prodotti destinati ad entrare nell’immaginario e nel gusto collettivo di intere generazioni (le barrette “Kinder”, per uscire un attimo dalla “retorica” della “Nutella), Michele Ferrero ha tenacemente tutelato il legame con il territorio nel quale nacque e si sviluppò originariamente l’azienda. Fino a fare diventare Alba “una factory town, con 30mila abitanti e uno stabilimento che ne impiega 4.500”, come ha spiegato Filomena Greco sul Sole 24 Ore di martedì 17 febbraio, evidenziando come la relazione tra Alba e la Ferrero sia “un rapporto più complesso, visto che la fabbrica ha rappresentato un’occasione di emancipazione economica senza stravolgere il tessuto sociale. Tanto che ancora oggi c'è qualcuno che parla degli addetti della Ferrero come di lavoratori-contadini”.  A dare il senso di che cosa significhi per un territorio avere la fortuna di ritrovarsi dentro il proprio perimetro un’industria come la Ferrero lo ha bene sintetizzato – con una dichiarazione apparsa sempre sul Sole 24 Ore di martedì 17 febbraio – Alberto Balocco, altro imprenditore protagonista di una storia di grande successo. “Essere a venti chilometri da un’azienda come la Ferrero – ha detto Balocco – è come avere la fortuna di avere come compagno di classe uno che poi diventa premio Nobel. Il successo della Ferrero racconta di un modello industriale che nasce e si sviluppa a partire dalla provincia e che dimostra come si possa diventare un player mondiale pur restando imprenditori “all'antica””. Che significa imprenditori all’antica? Dice sempre Balocco: “Far bene senza fare pasticci, sapendo che prima di tutto c’è la produzione, la fabbrica, le persone, i macchinari, il marketing”. Insomma, la lezione di Ferrero insegna che occorre essere convinti che un’azienda per crescere nel tempo e strutturarsi in maniera competitiva ha bisogno di creare intorno a sé consenso, condivisione, accompagnamento non formale, ma sostanziale. Perché? Perché deve diventare parte del territorio/comunità fino a fare coincidere i propri interessi con quelli del luogo dove “vive” e produce. Vogliamo chiamarle – come argomenta da tempo Aldo Bonomi – imprese coesive? Certamente sì. E sempre Michele Ferrero fornisce la traccia giusta per capire fino in fondo quale sia la nuova frontiera della crescita anche nel Mezzogiorno. Il modello delle relazioni industriali, per esempio, va incanalato in un rapporto che declina in maniera innovativa il welfare aziendale e coinvolge nei piani di produttività i dipendenti attraverso una politica di premi salariali in linea con le dinamiche di crescita del fatturato. Non può essere un caso se il sindaco di Alba alla morte di Ferrero ha rilasciato questo tipo di dichiarazione: “È come se fosse venuto a mancare un familiare”. Naturalmente, prendere come punto di riferimento la Ferrero per provare a riportare al centro dell’attenzione la necessità di elaborare un modello “coesivo” di sviluppo nelle aree del Sud implica una serie di “difficoltà”. E forse ci vuole davvero un po’ di “immaginazione”. Ma senza ricreare un rapporto fiduciario autentico tra i vari “pezzi” che concorrono a fare di un territorio una piattaforma competitiva e capace di reggere l’onda d’urto della desertificazione manifatturiera in atto, non è concepibile pensare di sgombrare il campo dalle macerie – come ha spiegato Gianfranco Viesti – di una crisi che è ancora molto forte nelle regioni meridionali.
    ERNESTO PAPPALARDO
    direttore@salernoeconomy.it


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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