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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • Il dibattito (e le polemiche) sulla riforma del lavoro non risolvono i problemi legati alla crisi dell’economia
    Tra Jobs Act ed “accordi di territorio” I nuovi modelli di relazioni tra imprese e sindacati si rivelano centrali per riavviare le dinamiche di sviluppo. Ma senza un disegno di politica industriale di livello regionale rischiano di naufragare nel mare della confusione di ruoli e competenze.

    In tempi di Jobs Act e di “risse” in sede parlamentare (ed extra) diventa difficile riprendere il filo del discorso sulle “cose” che veramente possono rivelarsi utili ai territori in fase di grave declino industriale e produttivo. Il problema di fondo esula dalle questioni eminentemente tecnico-giuridiche, che, certamente, sia ben chiaro, hanno estrema rilevanza. La verità è che - al di la della strumentalità delle posizioni assunte in questi giorni da politica, sindacato e organizzazioni datoriali (che pesano non poco sul quadro complessivo) - si ha la sensazione che la realtà dei fatti è ben più avanti. Sui territori, cioè, si prova a sperimentare formule in grado di incidere sulla sopravvivenza non solo di questa o quella azienda, ma anche (per fortuna) di interi sistemi produttivi locali. Naturalmente, la maggior parte di questi territori non è collocata nelle aree del Sud. Ed i motivi sono molteplici: la conflittualità sociale è molto più consistente perché la compressione dei redditi e la capacità competitiva delle imprese si incrociano in maniera drammaticamente negativa. Eppure, ascoltando bene tutte le parti in causa si arriva alla conclusione che sono pienamente consapevoli che non ci siano molte alternative: occorre attivare al più presto intese territoriali che tengano conto delle specificità e delle caratteristiche rilevanti (più negative che positive al Sud) presenti nei vari “poli” produttivi. Insomma, non si può continuare a pensare che lo stesso vestito possa andare bene a Milano e a Reggio Calabria. Detta così sembrerebbe una banalità, ma, invece, è il punto di partenza di tutto il ragionamento che si scontra da queste parti con una miriade di ulteriori problemi. Quali? In primo luogo la mancanza di un quadro stabile di programmazione dello sviluppo alimenta smanie di leaderismo che travalicano ruoli e competenze. Insomma, la massima confusione (anche in termini di senso di responsabilità e di reale capacità di aggregazione sulle proposte e sui progetti che si avanzano) si rivela la causa principale dell’inconsistenza (assenza?) di un disegno di politica industriale regionale (che non può non tenere conto dei sub/sistemi provinciali) all’interno del quale collocare adeguate misure di supporto finanziario ed operativo e di incentivazione (anche fiscale) di accordi legati alla parola/chiave di ogni serio tentativo di contrattazione sui territori: la produttività. Senza una vera politica industriale è fuori discussione che gli accordi/quadro; i protocolli d’intesa; i “contratti di territorio” e quant’altro possano avere alcun senso strutturale e non effimero o - addirittura -  (purtroppo sì) elettoralistico/propagandistico (e non solo in ambito politico). Per cominciare manca il tavolo “super partes”: dove – se non in sede di Regione Campania – si può mettere in campo un progetto di politica industriale adeguato alle esigenze dell’intero sistema produttivo regionale (con gli annessi sub/cluster provinciali)? Né un sindacato con una visione veramente ampia dei diritti può contrattare soltanto accordi di “comparto”o di filiera senza definire prima il perimetro entro il quale tutte le categorie sono uguali, pur nelle differenze legate alle specificità dei percorsi produttivi. I modelli di “alleanze territoriali” che altrove funzionano hanno introdotto a livello generale meccanismi di sostegno (spesso incentrati sulla premialità) alla contrattazione orientata alla produttività, giovandosi del forte e concreto supporto del livello istituzionale regionale (arrivando nei casi più importanti anche a quello governativo). Ma senza mai smarrire la direttrice principale: includere (e non escludere) il massimo numero possibile di imprese e lavoratori in una cornice di potenziale applicabilità delle intese/quadro. In provincia di Salerno non mancano fermenti propositivi ed in alcuni casi davvero innovativi. La concretezza di ogni tentativo che sarà posto in essere dipenderà sostanzialmente dalla possibilità (e capacità) di recuperare un reale spirito di condivisione dei problemi da superare. E di limitare l’invasività della politica (specie in tempi di corsa elettorale a Palazzo Santa Lucia). E’ il momento, quindi, di lavorare operosamente dal basso, riscoprendo la capacità virtuosa della mediazione mite e feconda tra gli interessi in campo. E’ in questo modo che le “alleanze territoriali” – come accade in Toscana, Friuli, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte – diventano “moltiplicatore” di occasioni di crescita e di sviluppo. Sarebbe bello raccontare  al più presto anche di un “modello-Campania” e di un “progetto-Salerno” in grado di attrarre investimenti (veri) e di creare posti di lavoro (veri).
    ERNESTO PAPPALARDO
    direttore@salernoeconomy.it


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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