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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • La crisi ha assunto caratteri strutturali che impongono cambiamenti di sistemaImprese e sindacati? A lezione di tedesco

    E’ tempo di ritornare ai problemi di ogni giorno. Le vacanze – per chi è riuscito a farle – sono alle spalle ed il chiacchiericcio estivo non ha lasciato alcunché di significativo in termini di proposte concrete. La solita sarabanda di annunci e preannunci ad uso e consumo dei giornali ha solo rimestato nel mortaio problemi veri, che in qualche modo dovranno essere affrontati, senza alcun costrutto. Magari non di corsa, ma “passo dopo passo” (che è sempre meglio da un punto di vista della resistenza al tempo e alle intemperie della politica). L’importante, però, è che – a partire dalla riforma del lavoro – si inizi a fare sul serio. Ed è sempre utile andare a studiare da vicino i modelli vincenti o, quanto meno, quelli che hanno saputo offrire risposte concrete, anche se in contesti molto diversi. Maurizio Ferrera (Corriere della Sera del 2 settembre scorso)  fin dal titolo del suo intervento puntualizza la questione di fondo: aziende e sindacati in questa partita cruciale devono abbracciare la logica della “santa” alleanza. In altri termini: il nodo centrale da sciogliere si coagula nell’urgenza di definire un nuovo assetto delle relazioni industriali che dovrà poggiare su meccanismi di contrattazione salariale basati sulla reale capacità produttiva e competitiva delle singole imprese. Senza una rivisitazione di questa tematica in senso costruttivo ed innovativo non si andrà da nessuna parte. “Il successo del modello tedesco – ha scritto Ferrera – è soprattutto figlio della moderazione salariale negoziata fra imprese e sindacati, grazie al peculiare sistema tedesco di relazioni industriali”. Ed è anche evidente che su un terreno sostanziale come quello delle relazioni industriali - che implica il pieno rispetto dei diritti dei lavoratori in un periodo di grande precarizzazione delle forme di contrattualizzazione - a fare riferimento alla Germania sono chiamati tutti gli attori della contrattazione. “Ad apprendere – dice Ferrera – non può essere solo il Governo. Occorrono l’interesse e la disponibilità delle parti sociali: entrambe”. 
    Va aggiunto che il contesto generale dell’economia tedesca ha ben accompagnato le cosiddette riforme Hartz introdotte dal cancelliere socialdemocratico Schroder (tra il 2003 ed il 2005): senza la stabilità dell’euro e la disponibilità di credito a tassi vantaggiosi difficilmente le imprese germaniche avrebbero raggiunto il livello di competitività che hanno saputo, poi, capitalizzare con grande efficienza. Né mancano riserve su alcuni aspetti introdotti con questi provvedimenti, a cominciare dai minijobs (lavori part time retribuiti con 400 euro mensili di base). 
    Naturalmente, occorre procedere ad una rivisitazione del modello tedesco con l’obiettivo di sfruttarne i punti di forza proponibili nel disastrato panorama italiano (e meridionale in particolare). Sulla base di analisi approfondite citate da Ferrera le key words di riferimento sono ben chiare: riforma dei servizi per l’impiego; radicale rimodulazione dei percorsi (e degli asset operativi) della formazione professionale; implementazione ed aumento degli incentivi per l’auto-impiego (di fatto divenuta l’unica forma di collocazione e ri-collocazione nei circuiti occupazionali); individuazione di protocolli di riferimento per attivare minijobs in grado di garantire tutele e retribuzioni non ulteriormente derogabili. 
    E’ inevitabile, quindi, che l’intenso dibattito degli ultimi mesi sul ruolo dei cosiddetti corpi intermedi deve lasciarsi alle spalle ogni forma di suggestiva narrazione retorica. Hic et nunc occorrono fatti. E cioè accordi operativi taylor made: territorio per territorio, azienda per azienda. In grado di incentivare le imprese a riattivare i propri percorsi di futuro. Non si tratta di scomodare modelli complessi ed articolati come quelli di “Electrolux” per intenderci, che restano in ogni caso paradigmatici in senso virtuoso. Ma, in via preliminare, di mettere mano a protocolli aziendali in grado di contemperare le diverse esigenze delle parti (non più controparti). In questo disegno giocano, poi, un ruolo determinante le risorse disponibili che la sfera pubblica potrà posizionare sul piatto: non si può pensare di uscire dalla crisi soltanto rifinanziando la cassa integrazione in deroga. Occorre, quindi, ripartire dalla contrattazione “locale” puntando alla creazione di un modello fortemente incentivante per imprenditori e lavoratori. Se l’azienda produce e vende di più automaticamente cresce la redditualità di tutti i soggetti che concorrono al progetto. 
    Non è un cambiamento facile. Gli ostacoli culturali e pregiudiziali sono molteplici. Né mancano strumentalità da una parte e dall’altra. Ma altre strade praticabili non appaiono all’orizzonte. La sensazione è che qualcosa si stia muovendo anche in provincia di Salerno. Tra mille difficoltà. Ma lo scatto di maturità è a portata di mano. O, almeno, questo è l’unico auspicio responsabile proponibile.
    ERNESTO PAPPALARDO
    direttore@salernoeconomy.it


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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