Glocal di Ernesto Pappalardo
E le imprese pagano il conto
Oneri aggiuntivi rispetto alle aziende del Centro-Nord pari al 20 per cento che pesano sul fatturato per circa il 29 per cento; costo del denaro al tasso del 9,8 per cento (per trovarlo più caro bisogna andare solo in Calabria e, comunque, in Campania è applicato dappertutto un tasso inferiore); tempi di pagamento da parte della Pubblica Amministrazione ben superiori alla già inquietante media nazionale. Per non parlare di altri fattori determinanti: i tempi della giustizia civile; il costo dei trasporti appesantito da quello del carburante (le accise regionali sono una vera e propria mannaia); le tariffe assicurative superiori in taluni casi a quelle di Napoli. Ecco in sintesi il quadro che emerge dallo studio sui differenziali di competitività (Camera di Commercio-Istituto Tagliacarne) tra la “piattaforma”-Salerno ed il resto del Paese. Francamente niente di nuovo rispetto a quello che gli imprenditori sperimentano sulla propria pelle – ed in perfetta solitudine – giorno per giorno. Ma a mettere insieme dati e percentuali, bisogna convenire che si ha la sensazione di un territorio davvero abbandonato a se stesso. Si capisce, quindi, come si sia potuto materializzare un “avvitamento” generale che ha avuto come effetto devastante la desertificazione industriale di aree che negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso avevano, invece, numeri competitivi rispetto al potenziale espresso complessivamente dal Mezzogiorno. Si capisce, cioè, che venendo meno le “convenienze” minime a mantenere attivi insediamenti produttivi in questa provincia, è iniziata la grande fuga verso aree più accoglienti. Principio semplice come la scoperta dell’acqua calda: se a parità di investimenti i costi – tra un’area e l’altra – sono sensibilmente differenti, per quale motivo grandi gruppi italiani e stranieri dovrebbero rimanere nel Salernitano? E, infatti, non ci sono rimasti un minuto di più. A parte qualcuno che di trasformazione in trasformazione prova ad utilizzare fino in fondo il know how tecnologico e professionale che nel tempo ha saputo costruire. Ma tutto questo – nel bene e, soprattutto, nel male di un ceto politico-istituzionale semplicemente distruttivo – è ormai acqua passata. Il danno – irreparabile – è stato compiuto. Con tutto quello che ne è conseguito in termini di compressione della capacità di produrre valore aggiunto vero e di abbassamento dei livelli occupazionali. Quello che provoca sconforto oggi è l’assenza di una prospettiva, anche nel lungo termine. Non è questione di mancanza di uomini o di idee, ma di ritardo effettivo, reale nell’elaborazione condivisa di un modello di sviluppo convincente. Un modello che tenga conto proprio delle diseconomie dalle quali ripartire e non dei vari libri dei sogni che la politica ha dispensato – ed in taluni casi continua a dispensare – a piene mani, con il respiro corto delle campagne elettorali o, peggio ancora, delle lotte interne ai partiti. Non è questione, quindi, di schierarsi sulle scelte di politica industriale. Magari avessimo una politica industriale regionale, per esempio, sulla quale dibattere e confrontarsi. Qui siamo fermi, purtroppo, al passaggio precedente: convincere tutti – ma proprio tutti – che occorre elaborare una politica industriale semplice e chiara, che parta dai reali bisogni delle imprese. Quali? Li abbiamo elencati sopra, all’inizio dell’articolo, come li ha individuati l’indagine del Tagliacarne. Ma si potrebbe partire da un gradino ancora più basso e più semplice da “scalare”. Si dovrebbe provare – in ogni Istituzione – a semplificare la vita delle imprese, omologando procedure e percorsi burocratico-amministrativi a quelli di regioni più attente alla valorizzazione del proprio patrimonio produttivo. Si potrebbe, cioè, trovare un modus vivendi – nel pieno rispetto delle leggi, ovviamente – più “friendly”, più amichevole, nei riguardi di chi, invece, viene già scoraggiato da imposte eccessive e balzelli vari per servizi erogati (?) male. Per non parlare dei ritardi della Regione nell’erogazione di fondi destinati a progetti sui quali le imprese hanno già investito di proprio come previsto da specifiche misure d’intervento a sostegno dello sviluppo industriale. Si arriverà, finalmente, a mettere sul tavolo della Regione, su quello dei Ministeri competenti ed anche su quello più robusto dell’Ue un “pacchetto-Salerno” capace di attrarre investimenti pubblico-privati e di rimettere in circuito un po’ di liquidità non a caro prezzo? E’ lecito dubitarne molto. Ma, alle volte, di necessità – dicono – si può fare virtù. ERNESTO PAPPALARDO direttore@salernoeconomy.it
Glocal di Ernesto Pappalardo
La laurea? Non basta
22/09/2017
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.
di P. Coccorese
ed E. Pappalardo
Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare. [Continua]
Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
07/07/2017
Lo scenario.
Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]
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