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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • L’analisi della Cgia evidenzia la fragilità della rete di sostegno a Pmi e famiglieLa crisi? Avvantaggia gli usurai

    Tutti i nodi prima o poi vengono al pettine. E’ del tutto evidente, per esempio, che di fronte al persistere della stretta creditizia - soprattutto nelle regioni meridionali - l’unica reazione plausibile da parte dei soggetti più a rischio (e cioè di quelli già “segnalati” all’interno del circuito bancario come clienti “difficili”) si configura nel ricorso al mercato “parallelo” (ed illegale) della liquidità che si caratterizza in larga parte per il triste e pericoloso fenomeno dell’usura. Un mercato che si articola - al di là dei pur ampiamente presenti solisti “artigiani” -  in una vera e propria “filiera” organizzata sempre più in maniera capillare sul territorio e molto rafforzata dai processi restrittivi (più che selettivi in senso qualitativo, molto probabilmente) messi in campo dalle banche. Il lievitare delle sofferenze ha implementato le dinamiche di contenimento della concessione dei prestiti, finendo, però, per escludere in maniera sistemica (sebbene del tutto coerente con i principi della corretta e sana gestione del merito del credito) una “fetta” di utenza destinata “fatalmente” a cadere nelle braccia degli usurai. 
    In questa cornice di riferimento i dati elaborati dalla Cgia di Mestre (diffusi qualche giorno fa) sono molto chiari. Negli ultimi due anni le banche hanno erogato a famiglie e imprese circa 100 miliardi di euro in meno. Tra la fine del 2011 e lo stesso periodo del 2013 le famiglie hanno subito una contrazione del credito pari a 9,6 miliardi (- 1,9%) e le imprese una flessione pari a qualcosa come 87,6 miliardi di euro (-8,8%). Nel Mezzogiorno la compressione del reddito familiare - derivante dall’aumento del tasso di disoccupazione - unitamente al processo di desertificazione industriale ha innescato una spirale estremamente pericolosa soprattutto in Campania e Calabria. L’indice del rischio usura è stato determinato mettendo a confronto una serie di indicatori su base regionale (2013): disoccupazione, fallimenti, protesti, tassi di interesse, denunce di estorsione e di usura, numero di sportelli bancari e rapporto tra sofferenze ed impieghi registrati negli istituti di credito. Tra le cause individuate dalla Cgia di Mestre che stimolano il ricorso ai prestiti sul mercato nero del denaro rientrano anche l’impossibilità di rispettare le scadenze fiscali e l’imprevista riduzione delle entrate derivanti dal palesarsi di malattie o gravi infortuni. Si attivano prestiti al di fuori del circuito bancario anche per fare fronte ad eventi familiari ritenuti importati dal punto di vista del prestigio sociale come matrimoni e battesimi. Rispetto ad un indicatore nazionale medio pari a 100, “la situazione più critica si presenta in Campania: l’indice del rischio usura è pari a 164,3 (pari al 64,3% in più della media Italia)”. La realtà meno “esposta”? Il Trentino Alto Adige, “con un indice del rischio usura pari a 51,8 (48,2 punti in meno della media nazionale)”. 
    Fin qui la fotografia dei numeri. Non è certamente “colpa” delle banche – è bene ribadirlo esplicitamente – se cresce il mercato dell’usura, anche se bisogna interrogarsi sugli effetti complessivi di politiche eccessivamente restrittive, molto spesso troppo sbilanciate sul versante della fredda logica del calcolo statistico, che pone in secondo piano la conoscenza della storia personale del cliente (il discorso vale per famiglie ed imprese allo stesso modo), oltre che l’attivazione di vere e proprie partnership consulenziali (dove possibile). Il problema vero è che in un quadro recessivo costante nell’arco di più anni non sono state messe in campo azioni di sistema per sostenere in maniera efficace l’accesso al credito soprattutto delle piccole (piccolissime) imprese. Nello stesso tempo le famiglie più fragili dal punto di vista reddituale (e, quindi, sociale) sono state abbandonate al loro destino. E’ mancato (e continua a mancare) un vero e proprio piano operativo in grado di superare l’eccessiva frammentazione degli interventi che pure sono stati attivati (con esiti, inutile dirlo, insufficienti e anche difficili da valutare in termini concreti) con grande strombazzamento mediatico. 
    L’imminente avvio delle iniziative della Bce (un’altra robusta iniezione di liquidità nel sistema arterioso delle banche) potrebbe dare luogo al cambio di rotta ormai indispensabile. Ma non mancano giustificate perplessità alla luce di quanto accaduto nel corso del precedente esperimento avviato da Francoforte.
    Un fatto è certo: senza un flusso consistente di credito a tassi accettabili non sarà possibile rendere realistica una nuova ed indispensabile stagione di investimenti da parte delle imprese. Senza ossigeno alle finanze delle famiglie non si alimenterà la domanda interna la cui caduta libera pesa come un macigno sui processi di ripartenza dell’economia. 
    Nel frattempo le “banche” della criminalità organizzata (e non) ringraziano e prosperano.
    ERNESTO PAPPALARDO
    direttore@salernoeconomy.it


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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