Gli indicatori riferiti al Mezzogiorno confermano dinamiche negative per l’economiaLa solitudine delle imprese
L’ultima raffica di dati immessi nel circuito mediatico conferma che siamo di fronte ad una situazione molto difficile non solo sotto il profilo delle dinamiche economiche e produttive, ma anche (e soprattutto) dal punto di vista della piena consapevolezza del momento di estrema criticità da parte dei livelli istituzionali locali (ma anche regionali e, per non pochi aspetti, nazionali). In altre parole si avverte la sensazione di essere immersi in un clima “finto”. “Finto”, perché, se da un lato si ostentano atteggiamenti ricettivi rispetto alla drammaticità delle condizioni di vera e propria povertà nelle quali versano fette sempre più ampie di popolazione (in larga parte al Sud); dall’altro non si verificano eventi logicamente collegati all’analisi che, pure, si propone in maniera così accentuata dal punto di vista politico e mediatico. Insomma, non si può credere sul serio a quanti delineano con precisione le problematiche che dovrebbero essere risolte; propinano ricette di vario tipo e con ampiezza di particolari; preannunciano perfino l’acquisto e la somministrazione dei medicinali giusti e, poi, regolarmente, non accade niente di effettivamente impattante sulla realtà effettiva delle cose. Nulla. Perché tra un’analisi congiunturale e l’altra; tra una classifica ed una graduatoria del Sole 24 Ore; tra uno studio Istat e una ricerca Ocse non cambia assolutamente niente. Anzi. Assistiamo all’aggravarsi delle condizioni del malato con la beffa di deprimere il clima di fiducia che, in qualche modo, gli 80 euro del bonus “Renzi” avevano provato a generare.
Diventa, quindi, francamente difficile per chi fa impresa ogni giorno, per chi si trova ad operare sul mercato delle libere professioni, per chi cerca di entrare o rientrare nel perimetro occupazionale immaginare che si possa fare fronte ad una tempesta che non accenna a passare. E’ evidente che la “mappa” sociale segnala due mondi diversi: da una parte quelli che a fine mese si ritrovano tra le mani la busta paga (anch’essa, va detto, meno tranquillizzante di un tempo e più precaria di quanto possa apparire agli stessi suoi beneficiari); dall’altra tutti gli altri che a vario titolo gravitano tra fatture, Iva, prestazioni occasionali, nero, semi-nero, grigio e via discorrendo. Con un nucleo centrale di senza lavoro o di ex lavoratori, di aspiranti lavoratori e lavoratori in varie forme dimissionati. Senza sottovalutare – al contrario – gli auto-imprenditori, gli start upper, e tante altre “categorie” di persone che non si rassegnano a rimanere esclusi dai percorsi occupazionali.
In questo scenario la solitudine degli imprenditori (e delle imprese) è un dato sul quale bisognerebbe riflettere con meno pregiudizi. Perché questa solitudine si scontra non solo con un atteggiamento “culturale” che ancora non riconosce appieno la funzione sociale delle imprese (e degli imprenditori), ma, soprattutto, con un contesto “strutturale” deprimente in termini di differenziali territoriali di competitività. Come recentemente confermato dalla Banca d’Italia le due Italie esistono e l’analisi comparativa degli indicatori sottolinea che siamo in presenza di un ampliamento progressivo del divario tra le macroripartizioni geografiche (Centro-Nord/Sud). La persistenza al Sud di fattori che consolidano la scarsa produttività; il dislivello competitivo; la mancanza di un disegno effettivamente percepibile e pienamente operativo di politica industriale - equilibrato e basato sulla conoscenza non effimera e superficiale delle singole agglomerazioni produttive - in ambito regionale sono le tracce di un’emergenza molto grave.
Senza entrare nel merito del dibattito in corso tra i sostenitori delle ragioni delle politiche di sviluppo dal basso ed i fautori di una maggiore centralizzazione della governance degli interventi in materia di dinamiche economiche ed occupazionali nel Mezzogiorno, negli anni della “glocalizzazione” dei territori sarebbe – forse – importante predisporre le basi strutturali di riferimento (le piattaforme locali) nella maniera più accogliente e friendly possibile sul versante dell’attrazione di capitali e di investimenti. E non è detto che non si riesca a smobilizzare una parte di rendite finanziarie o immobiliari che fino a questo momento nelle regioni meridionali non si sono indirizzate al sostegno di progetti di crescita industriale, turistica, culturale, agro-alimentare eccetera. Gli strumenti alternativi ai canali bancari tradizionali ora ci sono. Ma occorre essere convincenti sul terreno della pianificazione dello sviluppo con un profilo di redditività ben riconoscibile. Altro che l’approssimazione elettoralistica nella quale viviamo permanentemente nel nostro disastrato Mezzogiorno.
Non si tratta di questioni risolvibili in tempi brevi. Ma, almeno, intravedere l’inizio di un percorso credibile, potrebbe avviare un cambiamento di “clima” sociale ed imprenditoriale. Non sarebbe affatto poco.
ERNESTO PAPPALARDO
direttore@salernoeconomy.it