La sorpresa arriva dall’analisi dei modelli di fare business radicati nelle comunità localiImprese “coesive” e valore dei territori
In tempi di crisi e di revisioni al ribasso delle proiezioni sul Pil, fa piacere constatare che la tipologia tutta italiana della piccola (micro) impresa “coesiva”, saldamente, cioè, radicata nel territorio (e nei distretti, anche in quelli che lo sono più come narrazione mediatica che per forma strutturale), resiste. Anzi, è capace di adottare la “resilienza” come atteggiamento sistemico per provare a non rimanere ingabbiata nelle dinamiche del lento ed inesorabile declino (soprattutto al Sud).
Ma quali sono le imprese che è possibile definire “coesive”? Sono quelle - spiegano gli autori del rapporto “Coesione è Competizione-Le nuove geografie della produzione del valore in Italia” realizzato da Consorzio Aaster, Fondazione Symbola e Unioncamere - “fortemente legate a comunità di appartenenza e territorio in cui operano, che investono nel benessere economico e sociale, nelle competenze e cura dei propri lavoratori, nella sostenibilità, nella qualità e bellezza, radicate nella filiera territoriale e tese a soddisfare le esigenze di fornitori, clienti e stakeholder in generale, che hanno relazioni con il non profit e le istituzioni territoriali”. Sono proprio queste aziende che “hanno una marcia in più che permette loro di andare lontano”. E non è soltanto una questione di impostazione “culturale”. La ricerca dimostra che le imprese “coesive” hanno registrato nel 2013 “aumenti del fatturato, rispetto al 2012, nel 39% dei casi” e che tra le aziende “non coesive” tale quota “si ferma ben al di sotto, al 31%”. Insomma, le “coesive” evidenziano anche una “migliore dinamicità sul fronte dell’occupazione: il 22% ha dichiarato un aumento degli occupati tra il 2012 e il 2013, contro il 15% delle altre imprese. Idem dicasi per fatturato totale e ordinativi esteri previsionali”. Tra le caratteristiche fondanti di questo modo di fare impresa spiccano le buone relazioni con il terzo settore e con le istituzioni. Molto chiara la “lettura” di Aldo Bonomi, direttore del Consorzio AAster che è tra i realizzatori dell’indagine. “Se la strada per il rilancio del Paese in un mondo sempre più globalizzato passa per un’Italia che punta sulla cultura, sull’innovazione, sulla qualità, sulla forza dei territori - dice Bonomi - lo studio Coesione è Competizione ribadisce che per fare questo non bastano le eccellenze ma bisogna riportare tutto alle comunità, alle società, alla coesione sociale. La società entra dunque a pieno titolo nel dibattito sulle forme di rappresentanza. Forme che non appartengono solo alla politica o al sindacato, ma che attengono anche alla capacità di ricostruire società di mezzo in grado di mettersi in mezzo tra politica ed economia nella contemporaneità”.
E nelle comunità dove le reti relazionali si intrecciano con la capacità di costruire un capitale sociale sano e diffuso la crisi è stata affrontata molto meglio che altrove. “Se mettiamo in relazione le performance economiche con la coesione e il benessere del territorio - si legge in una nota di sintesi della ricerca - scopriamo una forte interdipendenza tra i tre ambiti. Osserviamo che anche dove la crisi è forte, se c’è un tessuto sociale coeso e vitale, un non profit presente e attivo, ha effetti più blandi o, comunque, distribuiti in maniera più equa all’interno della comunità socio-economica”. Accade, quindi, che in Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Umbria, Abruzzo, Molise, Basilicata e Sicilia, “pur in presenza di un’evoluzione produttiva nettamente al di sotto della media nazionale, grazie alla coesione sociale, l’equità e il benessere non hanno registrato tracolli”. E “dove, invece (Campania, Puglia e Calabria), la coesione si è allentata, l’equità e il benessere hanno subito forti scossoni”.
La sostanza del ragionamento riconduce alla vera identità socio-produttiva della piccola e piccolissima impresa familiare italiana. “C’è una trama di connessioni e relazioni - è scritto ancora nel documento di sintesi del rapporto - un andare con gli altri, che è il tessuto connettivo del made in Italy più vitale. Che è iscritto nel dna del nostro modello produttivo e delle nostre dinamiche sociali. Attiene alla natura decentrata e puntiforme del sistema delle imprese, con la miriade di piccole e medie aziende legate al territorio, in cui l’imprenditore è anche cittadino e membro della comunità, ed è legato da rapporti diretti con i lavoratori e i fornitori che, in virtù di questo, danno all’azienda un contributo che va oltre il loro ruolo”.
Occorre, quindi, diffondere ancora meglio la consapevolezza che “le performance del profitto sono sempre più dipendenti da valori e fattori non direttamente economici, come il rispetto dell’ambiente, quello dei diritti dei lavoratori, la valorizzazione delle proprie risorse umane, il sostegno alle comunità, la collaborazione, la promozione culturale”. Siamo di fronte – sottolineano gli autori della ricerca – “ad un modello nuovo: un’economia meno rampante, meno avida, più attenta ai destini delle persone e del pianeta”. E puntando su questo modello il Sud potrebbe ritrovare le ragioni comuni per uscire da un processo di emarginazione non solo economica, recuperando dinamiche socialmente inclusive. Premessa indispensabile per cercare di ritornare a condividere il senso di comunità che è alla base di ogni percorso di rinascita (anche produttiva).
ERNESTO PAPPALARDO
direttore@salernoeconomy.it