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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • Desertificazione industriale e processi di esclusione dal circuito produttivoLa fabbrica in crisi? La “comprano” i lavoratori Il workers buy out avanza in Emilia Romagna, Toscana e Veneto

    Il problema è sul tappeto da tempo, ma – come sempre accade soprattutto al Sud – si preferisce girarci intorno e per paura di intaccare equilibri “concertativi” non si prendono iniziative concrete. Come provare a tamponare il deserto industriale che avanza e, nello stesso tempo, arginare il salasso occupazionale in atto? In altre parole: come tentare di “affiancare” dinamicamente il meccanismo degli ammortizzatori sociali che - di fatto - assicurano una temporanea assistenza reddituale a chi resta senza lavoro, ma non una prospettiva di medio/lungo periodo in grado di non estrometterli dal circuito produttivo? Naturalmente, il tema è “complesso”. Sfiora tabù profondamente radicati nel lessico sentimentale ed emozionale della sinistra e dei sindacati. Ma proprio nelle regioni per così dire “rosse” - come Emilia Romagna e Toscana (oltre che nel Veneto, un tempo “bianco”) - e proprio dal mondo delle cooperative sono partite idee e proposte che di fatto puntano (e gli esperimenti riusciti non sono pochi) a trasformare i dipendenti in imprenditori. Si tratta del meccanismo che tecnicamente si definisce “workers buy out”, un’operazione che prevede l’acquisto da parte dei lavoratori della società nella quale operano. Il modello è ampiamente diffuso negli Stati Uniti, ma oggi appare attuabile (e già attuato) non solo in varie regioni d’Europa, ma anche – addirittura – nell’ingessato sistema italiano. 
    Ancora una volta lo studio delle buone pratiche che hanno funzionato altrove si rivela un rimedio in grado di supplire alla mancanza di “fantasia” (chiamiamola così per carità di Patria) politico/istituzionale. Già da tempo avviata – per esempio – la collaborazione  tra Regione e Unioncamere del Veneto per promuovere processi di accompagnamento manageriale, fiscale, finanziario e legale, delle imprese in situazione di crisi. La strada dell’attivazione di cooperative di dipendenti che investono trattamenti di fine rapporto o altre proprie risorse nell’azienda nella quale lavorano e che si avvia al fallimento, è una delle opzioni che alla fine possono rivelarsi – se adeguatamente sostenute in sede istituzionale, datoriale e sindacale – maggiormente foriere di risultati positivi sotto vari aspetti. Dal punto di vista occupazionale certamente, ma anche in termini di mantenimento di presidi produttivi assolutamente strategici per i territori. I numerosi casi verificatisi in provincia di Salerno – la cosiddetta fuga delle multinazionali – hanno avuto (oltre il drastico impatto sulla riduzione dei livelli occupazionali) una grave conseguenza sotto il profilo della qualità produttiva del territorio, fino ad intaccarne non solo la capacità competitiva, ma la sua stessa “identità” dal punto di vista industriale.  Nelle regioni dove è più storicamente diffusa la cultura della cooperazione (Emilia Romagna e Toscana, appunto) sono localizzati molti dei casi di società che hanno messo in campo percorsi riconducibili al workers buy out. In base ad una ricerca dell’Università di Padova non si tratta di “storie” d’impresa semplici. Anzi, la costituzione di cooperative buy out comporta un alto rischio imprenditoriale: il tasso di mortalità delle nuove aziende (newco) che prendono forma dopo il necessario processo di ristrutturazione è pari al 22 per cento, ma, comunque, meno alto di quello riferibile ad una start up (35%). Naturalmente, se si prendono in considerazione le dinamiche di cambiamento delle competenze professionali e manageriali che necessariamente sono chiamati ad affrontare gli ex dipendenti/lavoratori, addirittura il tasso di mortalità può apparire abbastanza contenuto. Anche perché molto spesso il contesto territoriale – istituzioni, banche, lo stesso circuito delle imprese, fornitori, clienti – è molto lento nell’instaurare relazioni fiduciarie improntate alla piena collaborazione. 
    Se, poi, caliamo, questo quadro abbastanza complesso nelle realtà locali della Campania e del Mezzogiorno, ci rendiamo conto che parlare di meccanismi di workers buy out potrebbe apparire, semplicemente, un esercizio da marziani. Ma tra le varie alternative all’impiego di consistenti risorse per gli ammortizzatori sociali – che si vanno a collocare in una dimensione quasi sempre non in grado di rimettere in moto strutturalmente le aziende che ne usufruiscono – l’appostamento di una quota delle stesse risorse per attivare (ed accompagnare) interventi di salvataggio delle imprese in crisi attraverso l’impegno diretto dei lavoratori nella proprietà, potrebbe rappresentare il segnale iniziale di un indispensabile cambio di strategia. La strada dell’auto/imprenditorialità, per quanto non semplice, appare, forse, tra le più efficaci (ed anche tra le meno “esose”) per contrastare la desertificazione industriale nel Mezzogiorno e ricollocare sul mercato del lavoro numerosi addetti che rischiano un’inesorabile marginalizzazione spesso anche in giovane età.
    ERNESTO PAPPALARDO
    direttore@salernoeconomy.it


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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