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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • Le scelte calate dall’alto indeboliscono i territori residuali ed in bilico tra ripartenza e declino acceleratoFare presto/fare bene, il decisionismo verticale funziona?

    Si sta insinuando nell’opinione pubblica la sensazione/convinzione che i passi in avanti (?) sotto il profilo dell’efficientismo decisionale a livello centrale – ben raccontati e sceneggiati dal punto di vista della narrazione mediatica – siano sempre e comunque positivi dal punto di vista delle ricadute sui territori. Anche su quelli periferici e sostanzialmente in condizione di residualità e di marginalizzazione rispetto alle dinamiche produttive. In altri termini, il processo di verticalizzazione delle scelte in materie importanti – non solo nell’ambito delle riforme istituzionali – come la programmazione infrastrutturale o il ridisegno del perimetro della presenza degli uffici cosiddetti periferici dello Stato, o l’accorpamento/snellimento degli Enti competenti in questioni non secondarie, rischia di tagliare completamente fuori da qualsiasi interlocuzione gli attori che pure subiranno sulla propria pelle gli effetti di quanto si va preparando sopra le loro teste. Non è un discorso di tipo politico – che pure ha la sua rilevanza – quello che andrebbe intavolato “dal basso”, ma eminentemente concreto e funzionale alla stessa sopravvivenza di vari contesti economici e produttivi molto importanti per la formazione del valore aggiunto e del reddito di intere aree del Paese e, naturalmente, del Mezzogiorno e della Campania. Quando si parla di crisi delle rappresentanze non si materializza un discorso astratto o – peggio ancora – di natura ideologica pre/guerra fredda. La stessa impostazione renziana nel rapporto con il sindacato o con Confindustria - la teoria, per intendersi della “musica è cambiata” - risponde all’esigenza di uscire dalla stagione della concertazione “paralizzante”, ma, nello stesso tempo, pare non contemplare mezze misure ed appare “liquidatoria” anche rispetto alla concertazione “buona” che resta, in ogni caso, il percorso più praticabile, soprattutto nei territori a non alto tasso di crescita, per evitare di aggiungere ulteriori “costi” sociali ed imprenditoriali in termini di occupazione e di desertificazione industriale. Non si può pensare di spingere sulla leva della contrattazione decentrata – per esempio – e contemporaneamente delegittimare i corpi intermedi e la società di mezzo. La territorializzazione dei progetti di sviluppo integrato – la costruzione, cioè, di piattaforme fortemente competitive in una dimensione “glocal” – presuppone la valorizzazione degli attori locali e non, invece, il loro progressivo ridimensionamento attraverso la politica dei fatti compiuti e calati dall’alto. In questo modo insieme con la necessaria ed indispensabile semplificazione tecnico/amministrativa, si procederà ad un’assimilazione indistinta di buone e cattive pratiche territoriali sulla base di una visione comunque condizionata dalla maggiore o minore incidenza dei rappresentanti politico/istituzionali delle varie aree geografiche sui tavoli che contano: quelle regionali, nazionali e comunitari. E siccome la mediocrità e la scarsa capacità di fare rete istituzionale delle rappresentanze meridionali è una delle piaghe più profonde tra le tante del Sud, è facile immaginare gli esiti negativi - per il Mezzogiorno - delle variegate iniziative messe a cuocere a livello romano. 
    Eppure di questo processo destrutturante in corso per i non pochi cluster di eccellenza che il meridione esprime a livello nazionale ed internazionale nessuno (o quasi) sembra avvedersi. Anzi. Ci si attarda nel solito giochino dell’accaparramento delle leadership mediatiche dei problemi e delle crisi che si susseguono a ritmo incalzante non solo in campo politico/istituzionale. E’ veramente triste osservare che tutto si riduce ad un galleggiamento fintamente innocuo, al “rimpallarsi” responsabilità e decisioni che, invece, andrebbero individuate con grande chiarezza fin da subito.
    Il risultato è che ci avviamo ad una nuova ed infausta stagione di decisionismo demagogico che avvantaggerà i territori già forti e ben posizionati sul mercato della competitività internazionale e farà arretrare ancora di più le realtà che, invece, avrebbero bisogno di provvedimenti “taylor made”, non – sia ben chiaro – di salvataggi o assistenzialismo fuori tempo massimo, ma, al contrario, di supporto operativo e strategico per rafforzarsi e crescere sulla base delle qualità che già esprimono.
    Naturalmente, queste problematiche non sfiorano neanche la vista corta della politica nostrana che si preoccupa sostanzialmente di conservare le proprie rendite di posizione tra una conferenza stampa, un convegno, un workshop e quant’altro. Tanto per cambiare, ora si aspettano gli esiti delle elezioni europee. Subito dopo si passerà ad un altro periodo di attendismo tattico in vista delle regionali del prossimo anno. Insomma, il film è un po’ vecchiotto, ma sembra proprio che dovremo rivederlo ancora diverse volte.
    ERNESTO PAPPALARDO
    direttore@salernoeconomy.it


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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