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ICEA - Istituto Certificazione Etica e Ambientale

  • Il differenziale tra bacini di risorse disponibili e capacità di attivare percorsi di crescitaLa crisi non “piega” i micro/ “cacicchi”

    Il taglio dei trasferimenti pubblici e la spending review  non spengono i municipalismi
    Il “fare sistema” si arena di fronte ai protagonismi localistici e i fondi Ue si disperdono

    Il discorso, per la verità, è abbastanza vecchiotto. Ma resta, purtroppo, di grande attualità. In questi ultimi giorni si è fatto un gran discutere di dispersione di fondi strutturali Ue, di polverizzazione degli interventi, di scarsa capacità di concentrare le risorse su poche e centrali priorità etc etc. La chiave di lettura è stata quasi sempre incardinata nella prospettiva dall’alto verso il basso. Nel senso che l’attenzione è stata focalizzata principalmente sul grande imbuto della Regione, dove la narrazione predominante – con molte e valide ragioni, per carità – individua il problema dei problemi. I numeri, le statistiche, le certificazioni di spesa certamente descrivono alcune sostanziali criticità. Rappresentano, cioè, uno stato delle cose che dimostra che c’è molto da lavorare per rendere più efficiente e spedita l’azione politico/amministrativa. Detto questo, occorre sottolineare che è molto più raro, invece, sentire parlare di che cosa accade in “basso”, nei territori, nelle aree vaste che si addensano intorno alle medie e grandi città. Capita molto più di rado, insomma, di imbattersi in qualche analisi/commento che si addentra nella dimensione dei tanti micro/municipalismi figli della prima stagione dei sindaci e ormai alle prese con la replica improduttiva di scimmiottamenti - anche sul piano del linguaggio sempre elettoralistico – ad uso e consumo di una visione alquanto angusta e, soprattutto, incapace di ottenere quei famosi “salti” di scala ormai divenuti indispensabili per garantire sviluppo non effimero. Nei territori, quindi, si consuma una campagna permanente di comunicazione politica finalizzata al consenso. Mentre ci si mantiene ben lontani dalla ricerca di alleanze larghe e robuste tra Comuni in nome di progettualità importanti, capaci di risolvere problematiche “antiche”. Si pensi alla drammatica condizione infrastrutturale in aree ad alto potenziale turistico come il Cilento o alle situazioni di assoluto ritardo “storico” come quella delle reti elettrica o internet che di fatto tagliano fuori interi comprensori dalla civiltà più evoluta.
    Eppure, di fronte a questo quadretto che sintetizza le vere esigenze condivisibili tra Comuni di piccole e medie dimensioni, i municipalismi ad uso e consumo dei cacicchi da “strapaese” ci consegnano una soggettività politica semplicemente incapace di incidere nei processi di programmazione e di attivazione delle risorse Ue (le uniche realmente captabili). Questa è la verità delle cose che si acquisisce girando per i territori “periferici” abbandonati al proprio destino, lontano dalle filiere istituzionali che, in ogni caso, non funzionano affatto. Ed è in questo quadro poco confortante che si inserisce l’abolizione delle Province che – a quanto sembra – produrrà un’ulteriore centralizzazione delle competenze (e delle relative, sebbene scarse, disponibilità economiche) intorno al nucleo delle città capoluogo. 
    Non resta, quindi, che lavorare “dal basso”, evidenziando le insostenibili contraddizioni (ed in molti casi le inadeguate competenze tecnico/amministrative) insite nei ritardi accumulati nella realizzazione di “pezzi” di reti istituzionali che dovrebbero essere animate da un solo obiettivo: canalizzare progettualità e risorse utili per rendere più competitivi i vari bacini territoriali contigui ed affini per vocazioni economiche e produttive. Si tratta di un passaggio non più rinviabile, che diventa fondamentale nel breve e nel medio periodo per evitare che anche la nuova programmazione dei fondi Ue (2014/2020) prenda lo stesso verso di quella precedente e di quella che è venuta prima della precedente. Solo con queste modalità di “ingaggio” si potranno accelerare i tempi per delineare dinamiche reali di crescita delle varie aree della provincia salernitana che dovranno ritrovarsi unite in base al “valore aggiunto” della piena condivisione di poche, ma imprescindibili priorità da mettere al centro di ogni piano di sviluppo sostenibile. 
    In fondo, la teoria della massa critica necessaria per conseguire un maggiore impatto sul mercato della competitività dei territori è abbastanza semplice ed usurata. Basta mettere da parte le campagne elettorali permanenti e la logica della convenienza mediatica. Se si fanno due conti, con i fondi Ue è meglio efficientare le reti fognarie e realizzare strade migliori e più sicure, piuttosto che rifare i marciapiedi ed inaugurare giardinetti che dopo due mesi sono da rifare. Ma vallo a spiegare all’esercito di cacicchi che si sono convinti di essere davvero gli sceriffi dei territori nei quali “spadroneggiano”.
    ERNESTO PAPPALARDO
    direttore@salernoeconomy.it


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La laurea? Non basta
22/09/2017

thumbnail-small-1.jpgQuesto articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.

di P. Coccorese

ed E. Pappalardo

Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare.  [Continua]

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    Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
    07/07/2017

    Lo scenario.

    Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]


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