Storie di territorio (2)/Le strategie per non spegnere il motore dello sviluppo localeFiliera del Latte, la lezione di Torino
La vicenda della Centrale di Salerno conferma l’esigenza di partenariati virtuosi
tra pubblico e privato per arrestare il processo di “desertificazione” produttiva
Ci sono molti modi per riflettere sulla vicenda della Centrale del Latte di Salerno. Tanti “approcci” diversi, spesso influenzati da “visioni” di corto respiro che non tengono nel dovuto conto il valore “immateriale” di un’azienda che nel tempo ha aggregato intorno a sé una filiera importante in termini di qualità della produzione espressa. La qualità e l’affidabilità sono alla base della relazione fiduciaria costruita con la platea di consumatori. Due componenti che hanno reso il marchio appetibile, come confermato dall’interesse manifestato dalla Centrale del Latte di Torino - citata la settimana scorsa da salernoeconomy.it come storia di eccellenza da tenere in considerazione per immaginare processi di crescita non campati in aria per la municipalizzata salernitana - in un contesto di “reti” nazionali di aziende locali in grado di contrastare il predominio di colossi internazionali. Perché il punto è proprio questo: occorre aumentare il tasso di competitività (e di redditività) entrando in una dimensione glocale. Perché oggi non si può sopravvivere in ambiti di nicchia eccessivamente ristretti: si finisce con lasciare il passo ai big player che non entrano mai nella logica della salvaguardia degli equilibri produttivi ed occupazionali dei singoli territori. Per loro contano altri indicatori: prima di tutto la conquista di bacini di utenza sempre più vasti che consentono di ampliare le vendite e pazienza se a farne le spese sono aziende locali che, invece, hanno avuto il merito storico di tutelare processi di filiera (non senza limiti e criticità) e migliorare progressivamente il livello qualitativo del prodotto finale.
Allora, la lezione che viene da Torino pone in primo piano la necessità di individuare un chiaro disegno di partnership commerciali e di “alleanze” in grado di spingere sul versante del virtuosismo produttivo, valorizzando la qualità, ma anche il marchio nell’ambito di un percorso che non esclude nessuna opzione. Tenendo sempre conto, però, che qualsivoglia forma di partenariato pubblico/privato deve consentire la salvaguardia di tre valori di riferimento: il radicamento territoriale della produzione, la valorizzazione delle professionalità già presenti nell’azienda salernitana e la conferma (i numeri attuali sostengono anche questa opzione) dei livelli occupazionali. Occorre, quindi, insistere sul concetto di “fare sistema” tra aziende o reti di aziende che basano la proprie possibilità di sopravvivenza nello scontro con i mega/competitor su un postulato prioritario: collocarsi e posizionarsi commercialmente in una fascia di mercato medio/alta (giustificando, quindi, prezzi al consumo più consistenti della media) che esprime il concetto di qualità, tracciabilità, piena trasparenza della filiera. Un “approccio”, quindi, che crea valore aggiunto sul marchio e consente di allargare il paniere dell’offerta al consumatore, basandosi proprio sul legame tra produttore ed acquirente. Non è certamente un percorso semplice. Occorrono unità d’intenti, senza semplificazioni demagogiche, ma anche piena disponibilità da parte di tutte le componenti ad affrontare la sfida della competitività con logiche “aggressive” di marketing e di ottimizzazione delle logiche di bilancio, trovando maggiore equilibrio, per semplificare, tra le voci dei costi e dei ricavi. E’ evidente che il ruolo del management si rivelerà importante, come, pure, quello della parte pubblica chiamata ad esprimere prima di tutto una politica di indirizzo strategico chiara. Il territorio è un valore o no? Le filiere produttive di qualità sono un riferimento ineludibile o no? Le vocazioni produttive vanno difese o no? La lotta alla desertificazione industriale è un principio ineludibile o no? Si può buttare dietro le spalle una storia così importante e significativa come quella della Centrale del Latte di Salerno in un momento nel quale è così difficile mantenere acceso il motore dello sviluppo locale? O vale la pena – in una logica di collaborazione virtuosa pubblico/privato, è questo uno dei percorsi probabilmente più sensati da seguire – di tentare di importare buone pratiche che altrove hanno consentito addirittura di esportare milioni di litri di latte in Cina?
ERNESTO PAPPALARDO
direttore@salernoeconomy.it