Non c’era, purtroppo, bisogno di un’ulteriore controprova (caso ex Filtrona) per rendersi conto che il processo di desertificazione industriale è in fase avanzata – come in tutto il Mezzogiorno – anche in provincia di Salerno. Né, per la verità si avvertiva l’esigenza di accendere le luci di una vetrina mediatica nella quale - a parte pochissime e qualificate eccezioni – si sono alternati interventi stereotipati e, naturalmente, poco produttivi in termini concreti. In altre parole si è rivelata particolarmente spiacevole la sensazione di assistere ad una liturgia ben nota che prevede più o meno sempre gli stessi “step” operativi: allarme sociale, preoccupazione, urgenza di fare qualcosa, appelli eccetera eccetera. Né in fase di elaborazione della narrazione di questo grave evento è parso chiaro che di fronte al reiterarsi di drastiche chiusure aziendali permangono modi di fare - sul piano politico ed istituzionale, ma non solo – che risalgono ad un’altra “epoca” economica. Il punto, invece, è (dovrebbe essere) un altro: se il problema è strutturale, quali risposte si possono provare ad abbozzare per evitare altre vicende così drammatiche? E’ del tutto evidente che la prima emergenza concerne il futuro più immediato dei lavoratori della ex Filtrona licenziati in maniera alquanto sconcertante ed irrituale. E’ questo il versante prioritario. Ma occorre anche interrogarsi su come affrontare l’inquietante deriva di un apparato produttivo che perde pezzi non tanto per cause endogene, ma per oggettive criticità esogene. La pressione fiscale, il costo del lavoro e dell’energia, la lentezza e l’inefficienza burocratico/amministrativa, il tempo dilatato all’infinito della giustizia civile: un insieme di problematiche che certamente non derivano dalla qualità gestionale delle aziende. Se si scambia qualche parola con il management delle multinazionali che ancora resistono sul territorio meridionale, si ricava la sensazione di una battaglia perduta in partenza. Le variabili negative sono troppe ed i costi sono insostenibili rispetto alla concorrenza di aree dell’Europa a pochi chilometri dai confini tricolori.
Eppure - mentre il Governo non riesce ad affrontare con determinazione il problema sostanziale (la riduzione del costo del lavoro) - in altre zone del Paese si sperimenta, si ricercano soluzioni ritagliate su misura, si prova, insomma, a rimanere a galla, a trattenere gli investitori stranieri (quei pochi che sono rimasti) e a fare in modo che i macchinari restino accesi in attesa di tempi congiunturali migliori. Come? Recuperando prima di tutto il filo del discorso a livello locale: accordi “taylor made” incentrati sull’antica e saggia regola del passo indietro da parte di tutti gli attori in campo. Insomma: tassazione locale, contrattazioni aziendali, welfare compensativo (o, quanto meno, più articolato ed ampio), condivisione degli obiettivi produttivi. Sono questi i versanti che possono consentire di recuperare un minimo di fiducia nel futuro. Anche perché è ormai ben chiaro che andranno ridefinite le “missioni” della rappresentanza, su tutti i fronti. Non può più reggere l’urto degli eventi l’idea di una rappresentanza che indica il dito perdendo di vista la luna: occorre recuperare il senso di comunità partendo proprio dal ruolo indispensabile dei corpi intermedi, della “società di mezzo”, che vive in prossimità dei problemi reali e concreti che vanno affrontati ogni mattina. E la “filiera” istituzionale a questo punto non può più ragionare soltanto in termini di accaparramento della “leadership” mediatica della crisi. Dovrà per forza di cose superare logiche di antagonismo politico e sterili localismi improduttivi, mettendo mano ad interventi seri di politica industriale. Il tempo è scaduto, purtroppo. Ma occorre affrontare senza più ambiguità e tornaconti particolaristici il tema del futuro di decine di migliaia di persone che si ritrovano senza lavoro e, soprattutto, senza più speranza.
ERNESTO PAPPALARDO