Ma siamo sicuri che è tutta colpa della crisi? Siamo certi, cioè, che la grave situazione economica ed occupazionale sia soltanto il riflesso delle dinamiche ormai radicate a livello strutturale sia nel mercato interno che in quello estero? Non si tratta di interrogativi sui “massimi sistemi”, ma di prendere atto che nei singoli territori la tendenza alla “rendita” di posizione, piuttosto che al rischio vero e proprio in termini di ricerca concreta della crescita del sistema produttivo, finisce con il delineare il profilo di ampie fette macro-regionali sostanzialmente ferme, aggrappate ai propri “bacini” sicuri e sempre più poveri di reddito, finendo per rimanere ai margini di ogni spiraglio di ripartenza. Il fenomeno macro è stato ben rappresentato da Marcello Messori sul Corriere della Sera dello scorso 8 gennaio (“Economia di rendita, male italiano”) in un ritratto esemplare. “Molto più che negli altri Paesi - scrive Messori - la nostra economia non spinge gli attori sociali a seguire l’esempio di chi vince sfide difficili o sfrutta opportunità aperte per successi duraturi. Ciò spiega perché, dalla metà degli anni Novanta, il nostro Paese abbia registrato una pessima dinamica del Prodotto Interno Lordo che si è basata sulla stagnazione delle diverse forme di produttività e su un uso distorto delle risorse umane e che ha indebolito un sistema già bloccato, ossia privo di mobilità sociale - spiega Messori - e chiuso al cambiamento, e sempre più vulnerabile, ossia con rischi crescenti di disgregazione sociale. In una parola le posizioni di rendita hanno trionfato e si sono trasformate in un abbraccio mortale per il futuro dell’Italia”. Quali responsabilità andare a ricercare? Molteplici, anche non semplici da individuare nella loro estesa capillarità. Ma certamente non è stata soltanto “colpa” della politica: alla fine si è scatenata la corsa – come evidenzia Messori – più a difendere il proprio ambito specifico che a mettere in campo visioni incentrate sulla necessità di realizzare un disegno di crescita generale. Partiti, organismi di rappresentanza, corpi intermedi, burocrazia e tecnocrazia. “Di conseguenza – dice sempre Messori – pressoché tutti gli aggregati economici e sociali hanno abbandonato gli obiettivi generali e hanno perseguito interessi particolari di breve termine”.
Non esistono ricette per venirne fuori alla svelta, ma è evidente che almeno due priorità sono molto chiare. La prima: ridare liquidità alle imprese – che non riescono a superare lo scoglio di un credito bancario meno “facile” ed abbondante – e ristabilire un clima di tranquillità sociale garantendo alla crescente fascia di persone senza lavoro ed in condizioni reddituali molto precarie un adeguato sussidio sociale (oltre che servizi assistenziali degni di un Paese realmente civile). Lo Stato deve nell’ambito delle protezioni sociali – rimarca giustamente Messori – “riassumere la funzione di assicuratore di ultima istanza”. Sul versante del credito l’indicazione di Messori individua il percorso che può consentire di superare la centralità del sistema bancario nei processi di finanziamento delle imprese. Come? Attivando meccanismi semplici e convenienti anche fiscalmente per mettere in comunicazione virtuosa le imprese (anche quelle piccole) con la ricchezza delle famiglie, che risulta tra le più elevate al mondo.
Ma per fare tutto questo è prioritariamente necessario creare un clima sociale positivo, che possa stimolare ragionevolmente una nuova stagione di cambiamento e di fiducia partendo dallo scardinamento di tutte quelle rendite di posizione che fino a questo momento hanno paralizzato ogni cosa. Se caliamo questa visione negli angusti microcosmi territoriali del Mezzogiorno, ci rendiamo conto che sarà davvero difficile riuscire a vincere la sfida: potare le siepi che recintano da decenni i tanti piccoli orticelli locali (in ogni caso redditizi per i gestori che tendono a rendere sempre più dilatate le proprie presenze sulle poltrone che riescono ad occupare).