Glocal di Ernesto Pappalardo
La "leggerezza" della classe (non) dirigente
Lo scenario politico salernitano quasi specularmente riflette il deserto economico e produttivo che conquista ogni giorno ulteriori fette di territorio. Il parallelismo accoglie in sé qualcosa di drammaticamente beffardo. Come spesso accade, diventa difficile distinguere i gradi di responsabilità. Ma è ben chiaro che tutti gli attori di un qualche rilievo in questa provincia si segnalano per la scarsa capacità di contribuire operativamente alla costruzione del cosiddetto capitale sociale. Inevitabile, quindi, interrogarsi sulla qualità della classe dirigente e sui meccanismi che dovrebbero contribuire a selezionarla in maniera adeguata alle problematiche da risolvere. Inutile sottolineare che la procedura della cooptazione ed i consociativismi diffusi poggiano le radici su valori di segno opposto al merito, alla preparazione, alla trasparenza delle scelte, all’interesse generale. In tante circostanze diventa davvero complicato comprendere se è la politica che ha contaminato negativamente gli altri corpi sociali o – viceversa – se sono stati gli altri corpi sociali ad “infettare” la politica, ampliandone la capacità di pervadere ogni angolo dove si decide qualcosa (più spesso di inutile che utile, se non addirittura di dannoso). In un contesto socio-economico come quello nel quale viviamo basta porsi qualche domanda molto semplice: ma oggi chi sono le persone che decidono di scendere o “salire” in politica? Perché le persone con una precisa identità professionale e reddituale sono così rare nel panorama politico-istituzionale? E perché di giovani brillanti e motivati se ne vedono così pochi nelle stanze di quello che resta dei partiti “tradizionali”? Risposta banale ancora una volta. Le scelte si compiono – qui come altrove, sia chiaro – in nome dell’appartenenza nel senso più deteriore del termine. Si va avanti – o indietro – per “cordate”, per “alleanze”, per correnti e sotto-correnti. Prendiamo, per esempio, il Pd ed il Pdl, i due partiti che sulla carta dovrebbero essere abbastanza rappresentativi di quelli che un tempo si chiamavano “blocchi sociali”. Ma che cosa sono esattamente oggi questi partiti? E, soprattutto, chi rappresentano realmente? Chi si riconosce in queste formazioni politiche? Quale visione o progetto esprimono al di là dei modelli - condivisibili o meno - che i suoi esponenti istituzionali programmano e tentano di realizzare? Quale dibattito interno è rinvenibile in questi partiti? Quale confronto di idee sono capaci di animare sulle dinamiche di sviluppo del territorio, per esempio? La domanda di politica, la “fame” di impegno civico per il rispetto dei diritti dei cittadini - è bene sottolinearlo - sono ben presenti anche qui da noi. Il risultato del “Movimento 5 Stelle” è un dato oggettivo. Sia per il Pd che per il Pdl la sovrapposizione tra rappresentanza istituzionale e leadership politica non sempre produce un effetto attrattivo, anche se va sottolineato che proprio grazie a questa caratteristica per il Pd è stato possibile raggiungere percentuali altrimenti irraggiungibili a livello di capoluogo. Ma adesso, quando il centralismo democristiano (non democratico) è ritornato in voga con il governo-Letta, quali prospettive di ritorno in vita sono rinvenibili in questo territorio per la sinistra riformista e socialdemocratica da una parte e per i moderati liberali dall’altra? Sarebbe necessario aprire porte e finestre, fare entrare ventate di gioventù intelligente e civicamente motivata. Bisognerebbe recuperare la disponibilità a mettersi in discussione, a prendere in considerazione variabili non sempre riconducibili ad un unico comune denominatore. Nel frattempo le antiche anime di via Manzo (Pci) e Palazzo Sorgente (Dc) si angustiano di sicuro nel contemplare l’evoluzione (?) di tradizioni politiche che furono capaci di esprimere – anche al di là degli uomini di qualità che li rappresentarono – uno sguardo lungo (condivisibile o meno) sul futuro e, soprattutto, molto più attento alle giovani intelligenze rispetto ad oggi. Perché in quegli anni la selezione della rappresentanza era, in ogni caso, basata maggiormente sulla qualità intellettuale delle nuove leve. Perché, probabilmente, non era ancora venuta meno la consapevolezza di “dovere” essere classe dirigente in nome di una responsabilità al di sopra del carrierismo e del tornaconto personale. Triste davvero dovere rimpiangere il passato senza avere spiragli di ottimismo sul futuro. ERNESTO PAPPALARDO direttore@salernoeconomy.it
Glocal di Ernesto Pappalardo
La laurea? Non basta
22/09/2017
Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Mattino (edizione Salerno) venerdì 15 settembre 2017.
di P. Coccorese
ed E. Pappalardo
Se tre indizi fanno una prova, allora è il caso di convincersi una volta e per tutte che la provincia di Salerno di sicuro non è “adatta” ai laureati. Per la verità, non si tratta di una constatazione particolarmente nuova, ma mettere in fila numeri e percentuali che confermano una triste verità fa sempre un po’ impressione. Primo indizio: solo l’8 per cento dei laureati è previsto in entrata nel mercato del lavoro salernitano (fonte: Sistema Informativo Excelsior/Unioncamere/Ministero del Lavoro) nell’ultimo periodo monitorato (agosto-ottobre 2017) in relazione ai contratti che le imprese del settore privato – industria e servizi – hanno dichiarato di volere attivare. [Continua]
Campania. La ripresa c’è, ma ancora lontani dalla pre-crisi
07/07/2017
Lo scenario.
Lo stato di salute dell’economia campana nel 2016 ha mostrato segnali di miglioramento, ma non tali da allentare le preoccupazioni - nel breve e medio periodo – dal punto di vista reddituale ed occupazionale. Secondo diversi fonti analitiche la “ripresina” si è basata su una lieve espansione della domanda interna – che ha rilanciato in maniera disomogenea i consumi – e dell’export (prioritariamente incentrato sul segmento farmaceutico ed in seconda battuta sull’agroalimentare). Il dato che, comunque, fotografa la reale dimensione della situazione si sintetizza nel ritardo ancora ben consolidato del Pil rispetto al periodo pre-crisi (2007). Nel 2016 il prodotto interno lordo campano accusa ancora un -16% in relazione al Pil registrato dieci anni fa. [Continua]
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